Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

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La costruzione dell’autonomia sarda

Giangiacomo Ortu*


Il risveglio dell’autonomia

Quando la Sardegna, dopo il 25 luglio del 1943, si sveglia dal sonno del regime (nell’isola il fascismo è stato tale: un sonno piuttosto che un incubo), e opinioni e sentimenti politici possono riproporsi liberi alla luce del sole, riaffiorano anche il valore e il principio dell’autonomia.

L’idea d’autonomia che riemerge dal «sottosuolo della dittatura» – l’espressione è di Umberto Cardia – non ha però contorni ancora ben definiti. È, del resto, inevitabile che la sordina messa nel ventennio fascista alle voci più vive ed autorevoli del sardismo democratico (come quelle di Emilio Lussu, Camillo Bellieni e Francesco Fancello) abbia determinato nell’isola una larga perdita di memoria dell’intera tradizione storica e politica dell’autonomismo sardo.

Nondimeno, alla ripresa della vita e della lotta politica l’autonomia entra subito in campo come valore ed obiettivo quasi universalmente condiviso. «Assistiamo oggi a questo impressionante fenomeno – dichiara nel marzo 1945 Luigi Battista Puggioni al VII Congresso del Partito sardo d’azione –: tutti i partiti, qualunque sia la loro tendenza o colore, si professano autonomisti». Ovviamente, l’autonomismo non ha la medesima forza e sincerità in tutte le componenti politiche del nuovo quadro democratico, ma anche il fatto che alcune di queste componenti lo assumano nel proprio programma più per opportunismo o trasformismo che per vera convinzione conferma che il suo lascito storico ha continuato a fermentare nel profondo della cultura e della coscienza sarda.

Il lascito storico dell’autonomismo ha tuttavia anche un erede più diretto, e cioè quel Partito sardo d’azione che tra la Grande guerra e l’avvento del fascismo aveva saputo trasferire sul piano del grande movimento di massa e tradurre anche in progetto politico di autonomia istituzionale il ricco dibattito sulla questione sarda che si era sviluppato sin da quando, nel dicembre 1847, le élites isolane avevano improvvidamente e d’un colpo rinunciato a tutti gli ordinamenti del Regnum Sardiniae. È naturale, quindi, che sia proprio il Partito sardo a collocarsi al centro del dibattito sull’autonomia regionale sin dall’autunno del 1943 – ancor prima del rientro in Sardegna dell’esule Emilio Lussu, il suo massimo leader storico – con i suoi Lineamenti del programma politico, caratterizzati da una marcata impostazione federalista.

Incerta e contrastata è, invece, l’adesione alla battaglia autonomista del Partito comunista italiano, i cui programmi prima della svolta politica operata da Togliatti a Salerno – a fine marzo del 1944 – sono ancora pienamente inscritti in un’ideologia da III Internazionale, fortemente subalterna agli interessi di potenza dell’Unione Sovietica. Soltanto l’istituzione dell’Alto Commissariato per la Sardegna, nel gennaio 1944, e della Consulta regionale sarda, nel dicembre dello stesso anno, con il conseguente avvio di una prima forma di autogoverno regionale, convincono infine il Partito comunista ad esprimersi per l’autonomia sarda, con la risoluzione Per l’avvenire della Sardegna, approvata nel febbraio 1945 dalla sua Direzione regionale. Nei primi mesi del 1944 la maggiore preoccupazione dei dirigenti comunisti sardi, sotto la guida di Velio Spano, era ancora quella di soffocare i conati di autonomismo federalistico espressi dal Partito comunista sardo di Antonio Cassitta e Giovanni Antioco Mura – un gruppo memore della parola d’ordine gramsciana della Federazione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche d’Italia –, costretto a sciogliersi dopo il I Congresso regionale del Pci, tenuto ad Iglesias nel marzo del 1944

L’apertura comunista all’autonomia rimane in realtà cauta e piena di riserve ideologiche e politiche ancora per alcuni anni. Nell’aprile del 1947, pochi mesi prima dell’approvazione dello Statuto sardo da parte dell’Assemblea Costituente, il consultore comunista Sebastiano Dessanay ritiene «possibile che l’autonomia, utile oggi, non sia indispensabile in avvenire. Anzi, in avvenire potrebbe... verificarsi la necessità di abbandonare un tale strumento». L’autonomia come mezzo, dunque, e non come fine, poiché realizzandosi in Italia le condizioni di una più radicale trasformazione sociale e democratica verrebbero meno le ragioni contingenti dell’autonomia politica ed istituzionale della Sardegna.

Dopo il Partito sardo, la più pronta a recepire nel suo programma l’obiettivo di un ordinamento autonomo della Sardegna è la Democrazia cristiana, che si esprime chiaramente in tal senso sin dal suo primo congresso regionale, tenuto ad Oristano nel maggio del 1944. L’autonomismo democristiano presenta nondimeno uno spettro molto ampio di interpretazioni, che varia da un cauto regionalismo d’ordine più amministrativo che politico (come è quello di Antonio Segni) alle manifestazioni di un astioso rivendicazionismo di segno antistatalista e anticoloniale. I democristiani sardi possono però riconoscersi tutti in un documento nazionale, Le idee ricostruttive della Dc, nel quale l’ipotesi regionalista gemma sul tronco dell’eredità meridionalistica di Luigi Sturzo.

Per quanto concerne, infine, le altre componenti politiche, mentre i socialisti attraversano sull’autonomia un travaglio analogo a quello dei comunisti, non mancano aperture regionalistiche anche tra i liberali, specialmente in Rafaele Sanna Randaccio e, in misura minore, in Francesco Cocco Ortu junior.

Nei suoi puntuali e approfonditi studi sulle origini della Regione autonoma della Sardegna, Maria Rosa Cardia ha ben rimarcato la povertà dell’elaborazione teorica, giuridica e costituzionale sull’autonomia sarda negli anni della grande transizione democratica, dal regime alla libertà, dalla monarchia alla repubblica. Le ragioni di questa povertà sono molteplici, ma le principali sono a nostro avviso le seguenti:

  • La Sardegna è stata appena lambita dalla lotta di liberazione nazionale contro il nazifascismo, non è stata insomma raggiunta dal benefico vento della lotta partigiana, dal vento del nord.

  • È affetta da uno stato di stagnazione culturale che è anzitutto conseguenza dell’isolamento della vita regionale dalla vita nazionale, ma è stato anche aggravato dal soffocamento da parte del fascismo dei fermenti civili e culturali del sardismo del primo dopoguerra.

  • Patisce un grave ritardo economico e sociale, che è stato appena scalfito dalle grandi opere di elettrificazione e di bonifica agraria realizzate tra il secondo e il terzo decennio del Novecento.

Se è povero il dibattito sull’autonomia, è altrettanto povero il più generale dibattito politico, scarsamente fecondato dalle voci di una grande cultura democratica – italiana ed europea – potenziatasi proprio nell’antitesi di civiltà ai regimi autoritari, e rimasto inoltre largamente estraneo al profondo rivolgimento morale e intellettuale che la guerra di resistenza ha prodotto in Italia..

Illuminante a questo proposito è il racconto che Emilio Lussu fa del suo rientro nell’isola, nel luglio del 1944, e delle reazioni suscitate nell’opinione pubblica dai discorsi che subito pronuncia nei maggiori centri urbani. Emerge lo scarto enorme tra la cultura aperta ed universale di un uomo che si è trovato per vent’anni immerso nella maggiore speculazione politica europea e la cultura viceversa chiusa e localistica di un’élite professionale e intellettuale che non manca di buona volontà e di intelligenza, ma difetta delle conoscenze e degli strumenti adeguati a far fronte ad una contingenza storica drammatica.

È una cultura, quella sarda degli anni tra il 1943 e il 1948, che neppure è in grado di prendere le misure di se stessa, di collocarsi cioè in un proprio orizzonte storico, di darsi un significato in rapporto ai problemi essenziali della realtà regionale. È per questo che il dibattito sull’autonomia si sviluppa senza profondità, quasi privo di ragioni culturali e storiche, schiacciato su un ordine di motivazioni ora tutte psicologiche, ora tutte economiche, passando senza mediazioni dall’espressione del risentimento verso l’Italia matrigna alla partita, che non quadra mai, del dare e dell’avere tra l’isola e il continente. Tra i pochissimi che innalzano il vessillo dell’autonomia in ambito culturale c’è già allora l’archeologo Giovanni Lilliu, democristiano, che sin dal settembre 1945 solleva l’esigenza di «una più efficiente ed autonoma organizzazione» dell’intero patrimonio artistico e monumentale dell’isola.


La Consulta regionale

Il 27 gennaio 1944 (governo Badoglio) è istituito con decreto luogotenenziale l’Alto Commissariato per la Sardegna, e pochi giorni dopo è nominato alto commissario il generale Pietro Pinna, uomo d’idee moderate ma dotato di sensibilità democratica e di grande equilibrio nei rapporti personali e politici. Soltanto nel settembre del 1944 il generale Pinna è affiancato da una Giunta consultiva composta di sei «esperti», che inizialmente sono il democristiano Antonio Segni, il sardista Salvatore Sale, il comunista Giuseppe Tamponi, il socialista Jago Siotto, l’indipendente Enrico Musio, il liberale Guido Zoccheddu e, come sostituto, il democristiano Salvatore Mannironi. Qualche mese dopo, con decreto legislativo luogotenenziale del 28 dicembre 1944 (governo Bonomi) è istituita anche la Consulta regionale, organo cui sono demandate funzioni di consulenza e di assistenza dell’alto commissario nel governo ordinario dell’isola e il compito, soprattutto, di formulare proposte per l’ordinamento regionale.

In tutti i casi si tratta di istituti che in sé hanno poco di autonomistico, poiché sono di emanazione governativa e rispondono – in Sardegna come pure in Sicilia – ad esigenze precipue di coordinamento con il governo alleato delle due isole (un governo soltanto civile in Sardegna, anche militare in Sicilia). Nondimeno questi istituti consentono una prima sperimentazione – favorita anche dal ruolo di arbitro, super partes, assunto dal generale Pinna – di una forma per quanto limitata di autogoverno locale.

Per quanto concerne lo studio dell’ordinamento regionale la produttività della Consulta regionale non è la medesima per le due isole. Nel caso della Sicilia, infatti, l’attività della Consulta si polarizza subito attorno al progetto di Statuto autonomistico, la cui formulazione è oltremodo rapida, nell’intento di ottenerne l’approvazione prima dell’elezione dell’Assemblea Costituente. Viceversa, la Consulta sarda s’impegna maggiormente nelle questioni di ordinaria amministrazione (che è quasi sempre, peraltro, una amministrazione d’emergenza) e demanda lo studio dell’ordinamento regionale alla sua VI (e ultima) Commissione di lavoro.

L’impreparazione sulla materia ordinamentale e costituzionale di questa VI Commissione della Consulta è però tale che essa conclude la sua prima riunione – tenuta soltanto il 25 agosto 1945 – demandando l’incarico di elaborare il progetto di statuto autonomistico al consultore sardista Piero Soggiu. Ma è poi l’avvocato nuorese Gonario Pinna ad assumersi l’impegno di elaborare il primo progetto sardista di statuto, lo Schema di progetto per lo Statuto del Governo autonomo della Sardegna, che conferisce alla Regione sarda un’ampia gamma di potestà esclusive, a partire da un marcato impianto federalista.

Allo “schema di progetto” di Gonario Pinna segue subito un secondo Progetto per la creazione del Governo autonomo della Sardegna redatto più schematicamente da Luigi Oggiano, uno dei leaders storici del Partito sardo. L’uno e l’altro progetto sono discussi e infine fusi in uno solo dal Direttorio regionale del partito sardo che l’approva e lo pubblica, il 10 gennaio 1946, sul suo organo di stampa, «Il Solco». Questo progetto di statuto sardista a base federale contempla il riconoscimento costituzionale alla Sardegna della personalità giuridica, con larga potestà legislativa e piena competenza sul proprio demanio, sulla propria finanza e sui rapporti commerciali nazionali ed esteri. Lo Statuto sardo, inoltre, avrebbe un carattere rigido in quanto non modificabile dallo Stato senza il consenso della Regione.

Adempiuto al mandato ricevuto di elaborare il progetto di Statuto, il Partito sardo chiede alla Consulta di prenderlo subito in esame, affidandone la presentazione al suo principale estensore, l’avvocato Pinna, benché non consultore. Ne ottiene però un netto diniego, motivato parte con l’eccezione formale alla presenza nell’assemblea consultiva di un esterno, parte con la mancanza di un adeguato corredo documentario per la discussione del testo proposto. Ma la preoccupazione vera dei consultori è quella di non riconoscere ai sardisti, nelll’imminenza delle elezioni amministrative (sono prossimi anche il referendum istituzionale e il voto per l’Assemblea Costituente), una centralità nella formazione dell’ordinamento regionale.

Prima che la VI Commissione della Consulta si riunisca nuovamente, e cioè il 26 aprile 1946, otto mesi dopo la sua prima riunione – una latitanza clamorosamente stigmatizzata dallo stesso alto commissario – vede la luce sul settimanale il «Corriere di Sardegna» anche un’ipotesi democristiana di statuto, redatta dall’avvocato cagliaritano Venturino Castaldi. Il progetto democristiano espunge ogni ipotesi federalista, ma riconosce ancora alla istituenda Regione competenza legislativa esclusiva in un’ampia serie di materie: oltre all’ordinamento e agli affari della Regione stessa, la scuola primaria e professionale, la sanità, le finanze, l’industria, il commercio e l’agricoltura, i lavori pubblici, i trasporti e le telecomunicazioni. Restano, invece, di esclusiva competenza statale il regime fiscale e doganale. Il progetto Castaldi introduce anche quella distinzione tra competenza esclusiva, limitata e regolamentare che servirà in seguito al progressivo depotenziamento autonomistico dello statuto sardo nel suo tormentato iter dalla Consulta regionale all’Assemblea Costituente.

Il dibattito su questi progetti di statuto è appena avviato quando, il 6 maggio 1946 – e cioè il giorno prima dell’approvazione nella Consulta nazionale dello Statuto siciliano, subito emanato dal governo – giunge nella Consulta sarda la notizia dell’intenzione di Lussu di tagliar corto alle discussioni nell’isola per chiedere con un emendamento al progetto di Statuto siciliano la sua estensione alla Sardegna. La proposta di Lussu – appoggiata nella Consulta nazionale dagli azionisti Francesco Fancello, Mario Berlinguer e Stefano Siglienti – è recepita dai consultori sardi, unanimi, quasi come una provocazione, e comunque come un attentato alle prerogative “costituzionali” della Consulta sarda.

L’intenzione di Lussu, tutta politica, è in verità quella di volgere la forza contrattuale dei siciliani a vantaggio anche della Sardegna, mentre i consultori sardi coltivano la convinzione – certo legittima – che il miglior progetto di statuto sardo possa venire soltanto dalla sua elaborazione in Sardegna. Un’espressione di verace autonomismo, questa della Consulta sarda, che molti storici giudicano, a posteriori, autolesionistica, in quanto i successivi mutamenti del quadro politico nazionale e internazionale giocheranno a favore del rafforzamento dello Stato e a danno del movimento d’autonomia.

Sempre a posteriori si è cercata una spiegazione della maggiore estensione dei poteri di autonomia nello Statuto siciliano rispetto a quello sardo nella pressione intimidatoria del separatismo siciliano, sino ad esprimere il rammarico che le élites isolane non fossero state anch’esse capaci di agitare tale minaccia. A simile accreditamento retrospettivo del separatismo si può obiettare, con Umberto Cardia, che il vero e proprio separatismo – come programma meditato e consapevole di secessione dall’Italia – ha giocato un ruolo sempre molto marginale in Sardegna. Qui, infatti, lo sbocco più normale dell’insofferenza anti-statalista è stato piuttosto l’indipendentismo, nel senso di uno stato emozionale, di un sentimento, di un moto spontaneo di rifiuto del rapporto subalterno nei confornti prima del Piemonte e poi dell’Italia. Secondo Umberto Cardia l’indipendentismo sarebbe allora in Sardegna – come nel caso più emblematico del giovane Gramsci, che riconosceva d’aver provato tale sentimento – la prima spia di una situazione di crisi e di disagio nel rapporto con l’Italia, e come tale una sorta di espressione aurorale, ancora irriflessa e immatura, sia del vero sentimento autonomistico che dell’ulteriore aspirazione federalistica. A questa considerazione di Cardia ne potremmo aggiungere un’altra: e cioè che l’autonomismo sardo, nella sua espressione più matura, quale è derivata dall’elaborazione di Emilio Lussu e di Camillo Bellieni, è un autonomismo per così dire “virtuoso”, nel senso che è indirizzato non a distruggere lo Stato italiano ma a conferirgli una maggiore sostanza democratica ed una vera anima nazionale. Ecco come il federalista Lussu – e proprio nel discorso all’Assemblea Costituente sull’autonomia sarda – esprime il valore dell’unità nazionale implicito in questo autonomismo virtuoso: «Noi sentiamo che la Sardegna, con questa sua esperienza autonoma, non si allontana dalla vita dello Stato o dall’unità nazionale, ma vi si avvicina e vi entra e vi partecipa per la prima volta, perché per la prima volta ha coscienza che questo nostro Stato è anche finalmente il suo Stato».


Lo Statuto

I lavori preparatori dello Statuto sardo riprendono più intensi dopo le elezioni del 2 giugno 1946. I risultati del referendum istituzionale in Sardegna sono una doccia fredda per molti, specie a sinistra: la monarchia ottiene il 60,9 per cento e la repubblica soltanto il 39,1 per cento. È un esito che conferma la relativa estraneità della società isolana ai processi culturali e politici attivati nel resto del Paese dalla caduta del fascismo, cui vaste masse di italiani hanno contribuito con la lotta di resistenza.

Il risultato delle elezioni politiche per l’Assemblea Costituente comporta anche una revisione della composizione della Consulta sarda, i cui membri, portati dal 18 a 24, sono redistribuiti tra i partiti in proporzione ai voti ottenuti. La Democrazia cristiana ottiene 10 posti contro i 9 complessivi di sardisti (4), comunisti (3) e socialisti (2). Lo schieramento di centro-destra, aggiungendo alla Dc l’Uomo Qualunque e l’Unione Democratica, conta 15 consultori su 24.

I lavori della Commissione per l’ordinamento regionale riprendono, quindi, entro una cornice politica fortemente mutata. Lo studio dell’ordinamento regionale subisce comunque un’accelerazione soltanto tra il novembre 1946 e l’aprile 1947, quando sono sentiti i rappresentanti degli enti locali e delle organizzazioni economiche, politiche e culturali, e infine anche i deputati sardi alla Costituente. Il testo definitivo della Commissione può essere finalmente approvato dalla Consulta il 29 aprile 1947, per essere quindi rimesso all’Assemblea Costituente, ove è preso in esame dalla Sottocommissione per il coordinamento degli Statuti regionali. Al termine di questo esame il Progetto di Statuto della Regione autonoma della Sardegna elaborato dalla Consulta sarda – dopo aver subito numerose altre modifiche (specialmente incidenti sulla competenza legislativa regionale) – diviene disegno di legge costituzionale con il titolo Statuto speciale per la Sardegna , e viene proposto all’Assemblea Costituente per l’ultima approvazione soltanto il 26 gennaio 1948. La discussione in aula – i lavori dell’Assemblea vanno verso la conclusione – è ristretta a tre sedute tra il 28 e il 29 gennaio. Il tempo a disposizione è ormai talmente limitato che il relatore Gaspare Ambrosini svolge il suo intervento senza testo scritto e che alcuni costituenti protestano di non aver neppure potuto esaminare il progetto.

La votazione finale avviene il 31 gennaio, che è anche l’ultimo giorno utile per l’approvazione della Costituzione italiana. Su 361 votanti, 280 sono favorevoli e 81 contrari. Il 26 febbraio 1948 lo Statuto speciale per la Sardegna diviene legge costituzionale.

Molti anni dopo, nel 1988, Mario Melis, il primo sardista presidente della Giunta regionale, parlerà della Regione Autonoma come della «più grande conquista del popolo sardo da duemila anni a questa parte». Essa avrebbe «dato al popolo sardo la consapevolezza di esistere come unità, come forza irripetibile sul piano della cultura, sul piano dei valori etici». Ma nel 1948 non si registrano – né nell’Assemblea Costituente né in Sardegna – accensioni particolari di entusiasmo. Lussu ricorderà in seguito di aver votato a favore soltanto per non rischiare che lo Statuto fosse respinto. Qualche anno dopo Renzo Laconi, anche lui deputato alla Costituente, rimarcherà la straordinaria coincidenza del riconoscimento dell’autonomia istituzionale alla Sardegna giusto un secolo dopo la rinuncia volontaria delle sue élites, nel dicembre del 1847, agli ordinamenti dell’antico e autonomo Regnum Sardiniae per la fusione perfetta delle sue istituzioni con quelle delle regioni di terraferma dello Stato sabaudo. Laconi è quello tra i dirigenti comunisti che dopo una prima incomprensione del valore dell’autonomia, si batte maggiormente per la sua conquista, e che poi non cesserà mai di credere nella Regione Autonoma della Sardegna.

I limiti della prima edificazione istituzionale dell’autonomia sarda sono ancora al centro di un dibattito intenso, di cui possiamo proporre soltanto alcuni passaggi.

1. Intanto lo Statuto sardo è approvato quando il suo disegno originario – passato per un iter di elaborazione e di approvazione troppo lungo – è stato impoverito di alcuni tratti caratterizzanti. La stessa caduta dell’ipotesi federalista – per quanto mai largamente condivisa dalle forze politiche isolane – lascia di fronte alla Regione uno Stato troppo forte, che l’accetta e accoglie entro di sé soltanto come «ente» e non anche come soggetto politico, secondo quanto è intenzionalmente specificato nell’art.1 dello Statuto: «La Sardegna con le sue isole è costituita in Regione autonoma fornita di personalità giuridica entro l’unità politica della Repubblica italiana, una e indivisibile».

2. L’impronta forte dello Stato è ribadita anche nella conservazione delle province e delle prefetture, che l’autonomismo più conseguente avrebbe voluto cancellare quali articolazioni della burocrazia centrale. Anche sotto questo profilo, è una osservazione di Umberto Allegretti, lo Statuto ha finito col disegnare una Regione modellata proprio sullo stato che alcuni avrebbero voluto distruggere.

3. Se lo Statuto conferisce alla Regione sarda poteri abbastanza larghi nelle materie economiche – almeno secondo la lettera degli art. 3 e 4 – è assai più povero e meno esplicito di concessioni nell’ambito sociale e in quello culturale, poiché l’art. 5 prevede la possibilità per la Regione di emanare soltanto «norme di un integrazione ed attuazione» per istruzione e ordinamento degli studi, per lavoro, previdenza e assistenza sociale e per antichità e belle arti. Ed è forse proprio sotto questo profilo, della prevalenza nelle competenze della Regione sarda della materia economica su quella sociale e, soprattutto su quella culturale, che emerge meglio l’incapacità dei consultori e dei costituenti sardi – e segnalarlo non significa certo disconoscere il grande ed epocale contributo che molti di essi hanno comunque dato alla conquista dell’autonomia regionale e, prima ancora, alla ricostruzione nell’isola del tessuto civile e democratico – di pensare il riscatto storico dell’isola in termini diversi da quelli del superamento dell’ arretratezza economica.

Intervenendo con disappunto nell’aprile 1947 sul tema dell’istruzione, che vedeva sottrarre nelle ultime sedute della Consulta regionale anche alla competenza concorrente, il democristiano Enrico Sailis protestava che non si poteva «essere autonomisti nel regno minerale e nel regno vegetale e antiautonomisti nel regno dello spirito». Ma era proprio questo che avveniva.


L’autonomia illusoria

Anche la conclamata conquista dell’art.13 dello Statuto, che impone allo Stato di disporre «col concorso della Regione un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’isola» s’inscrive appieno nell’orizzonte di una autonomia che giustifica la sua specialità non sul fondamento più sostanziale dell’identità e soggettività di un popolo (che prima di essere italiano è sardo), ma sullo scarto tra la sua ricchezza e quella di altre popolazioni del Paese. L’illusorietà di un riscatto concepito soltanto in termini di incremento delle produzioni e dei redditi verrà alla luce proprio attraverso il percorso e le modalità di attuazione dell’art. 13 dello Statuto.

Intanto è verissimo – come ha osservato Maria Rosa Cardia – che questo articolo contiene un elemento di novità forte in quanto postula «un profondo mutamento di tutto l’indirizzo dello stato» in tema di programmazione dello sviluppo, con un superamento di fatto della logica delle leggi speciali e degli interventi infrastrutturali propria del più tradizionale meridionalismo governativo. Ed è merito principale di Renzo Laconi – cui è stata attribuita anche l’intuizione dell’inserimento nello Statuto dell’art. 13 in sostituzione di altro meno impegnativo per lo Stato – di aver visto in questo articolo una grande occasione politica e storica per raccogliere le forze progressive dell’isola, oltre gli steccati partitici, in un grande movimento corale per la rinascita sarda.

Avviene così che negli stessi anni in cui si ha l’edificazione dell’ente regione, in cui «l’autonomia si raccoglie nell’istituzione» uscendo dalla società regionale – derivo l’espressione da Umberto Allegretti –, questa stessa società sarda è, con moto opposto, stimolata a rispecchiarsi nell’istituto regionale dal grande impegno che le sue energie più generose e vive profondono – a partire dal grande Congresso del popolo sardo promosso dalle sinistre nel maggio del 1950 – per l’ottenimento dallo «Stato di un piano straordinario per la rinascita economica e sociale dell’isola, quale sarà infine approvato dal Parlamento nel 1962 Quello del Piano di Rinascita, ovviamente, è un altro capitolo rispetto al tema di questa lezione. Va nondimeno richiamato perché esso rappresenta, per le modalità della sua elaborazione e per le dinamiche complesse di relazione tra Stato e Regione che mette in essere, il passaggio più critico dell’intera costruzione autonomistica derivata dallo Statuto sardo.

Tutta l’isola guarda al Piano come all’occasione irrinunciabile ed irripetibile per uno sviluppo autonomo ed endogeno e, non soltanto nell’ambito economico, ma lo Stato pretende di conservare la direzione e la regia di tutto, ed infine imprime al Piano una direzione largamente delusiva (mi concedo il neologismo) delle aspettative della gran parte dei Sardi:

  • eccessivo privilegiamento dell’industria rispetto all’agricoltura

  • sottovalutazione delle risorse naturali e ambientali dell’isola

  • noncuranza dei know how locali di saperi e pratiche depositati dalle attività produttive tradizionali

  • riduzione della stessa popolazione sarda a «fattore umano» passivo ed inconsapevole di uno sviluppo pensato a prescindere dalle sue esigenze.

Non solo, ma la Regione non riesce a farsi riconoscere né, prima, un ruolo di guida ed orientamento dell’attività di studio del piano, né, in seguito, quale organo più naturale per l’attuazione del Piano.

I frutti positivi del Piano di Rinascita sono allora soprattutto indiretti e non previsti:

1. l’emergere a contrasto dello sguardo straniero gettato dai pianificatori sulla Sardegna e i suoi problemi di una sua identità e soggettività anche culturale;

2. la formazione per reazione alla modernizzazione pan-industrialista di un nuovo paradigma del rapporto tra innovazione e tradizione, che apre ad una diversa valorizzazione delle molteplici espressioni della cultura popolare sarda;

3. una più matura consapevolezza delle risorse ambientali dell’isola, imprescindibili per ogni progetto di sviluppo locale, ma entro i limiti fissati dalla loro riproducibilità;

4. la riproposta in termini rinnovati del discorso e del progetto dell’autonomia, a partire da quella grande fioritura di esperienze intellettuali, avviata sin dal 1949 con la fondazione da parte di Antonio Pigliaru della rivista «Ichnusa», che oggi raccogliamo sotto l’espressione «cultura della rinascita».

Sono appunto gli esponenti maggiori di questa cultura – Antonio Pigliaru, Renzo Laconi, Michelangelo Pira, Giovanni Lilliu, Umberto Cardia e numerosi altri – ad avere creato le premesse intellettuali e morali di una rifondazione dell’autonomia sarda. L’esigenza di questa rifondazione si è espressa in molteplici direzioni, tra le quali la riscrittura della carta autonomistica del 1948. Negli ultimi tre decenni, a partire dall’attuazione del dettato costituzionale sulle regioni ordinarie, gli orientamenti in merito si sono modificati e diversificati, e all’ipotesi di una revisione parziale dello Statuto si è aggiunta quella di una sua riscrittura integrale attraverso una Costituente sarda.

Non è compito di questa lezione entrare nel merito di questioni di attualità politica che implicano posizioni e scelte diverse. Posso soltanto appuntare – in conclusione – che le modifiche in atto della Costituzione italiana anche in materia di ordinamento dello Stato e la recente approvazione della Costituzione europea hanno reso più necessario, ma anche enormemente più intricato e complesso, il percorso rifondativo dell’autonomia sarda, specie se l’obiettivo è quello di un’autonomia integrale, e cioè di un’autonomia concepita con grande latitudine di implicazioni istituzionali, civili e culturali.






Riferimenti bibliografici essenziali

G. Serri (a cura di), Corriere di Sardegna, Edes, Cagliari 1974

A. Carta, La nascita dello Statuto sardo: storia del depotenziamento dell’autonomia, in «Studi economico giuridici» (Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Cagliari), XLIX (1978-79), tomo III, Milano 1980

AA.VV, Ethnos. Le autonomie etniche e speciali in Italia e nell’Europa mediterranea, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari 1988 (interventi di U. Allegretti, M.R. Cardia, R. Mangiameli, M. Melis)

R. Laconi, La Sardegna di ieri e di oggi, Edes, Cagliari, 1988

S. Dessanay, Identità e autonomia in Sardegna (Scritti e discorsi , 1937-1985), Edes, Cagliari 1991

M. R. Cardia, La nascita della Regione autonoma della Sardegna (1943-1948), Franco Angeli, Milano 1992

Eadem, Le origini dello Statuto speciale per la Sardegna. I testi, i documenti, i dibattiti, 3 voll., Edes, Sassari 1995

G. G. Ortu, Storia e progetto dell’autonomia. Percorsi e profili dell’autonomismo sardo nel Novecento, Cuec, Cagliari 1998

U. Cardia, Autonomia sarda (Un’idea che attraversa i secoli), Cuec, Cagliari 1999

L. Berlinguer, A. Mattone, La Sardegna, Einaudi, Torino 1999 (saggi di I. Birocchi, M. R. Cardia, S. Ruju e F. Soddu).




* Università di Cagliari.





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi

NAPOLI - 16 febbraio 2005
- Francesco Paolo Casavola
- Guido D'Agostino
- Paolo De Marco
- Isabella Insolvibile

CATANIA - 22 febbraio 2005
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- Rosario Mangiameli
- Salvatore Lupo

ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli


  CAGLIARI - 7 marzo 05
  - Manlio Brigaglia

 Giangiacomo Ortu



BOLOGNA - 9 marzo 2005
- Luciano Casali
- Antonio Parisella

PADOVA - 14 marzo 2005
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- Emilio Franzina

TORINO - 16 marzo 2005
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- Claudio Dellavalle

FIRENZE - 17 marzo 2005
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- Ivano Tognarini

GENOVA - 17 marzo 2005
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TRIESTE - 19 marzo 2005
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MILANO - 22 marzo 2005
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- Claudio Dellavalle
- Gianni Perona



 
 
 
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