Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

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La maturità della Resistenza armata e la mancata liberazione di Bologna

Luciano Casali*


Quando, nella zona di Montefiorino, carabinieri e militi cominciarono a cercare borgo per borgo i renitenti alla leva, molti di coloro che avevano deciso di non presentarsi nella speranza che la guerra sarebbe durata ancora poco tempo, abbandonarono le case e si nascosero nei castagneti.

Anche Pasquino decise che, per nessuna ragione al mondo, avrebbe indossato un’altra volta l’uniforme:

Non dormii più in casa. Stetti 3-4 giorni in un bosco e mi riunii con alcuni ragazzi di diverse classi, dal 1922 al 1925. Ma circolavano le voci che i militi andavano nelle case ed incendiavano. Ed allora uno si presentò, allora un altro lo seguì. Io resistevo [...]. Dormii febbraio e marzo in una grotta, con tanta neve! E tutti mi dicevano: “Ma cosa fai? Perché vuoi fare una vita così? È meglio che ti presenti!” Eh no! Verrà anche l’estate... 1

E arrivò l’estate del 1944...

Negli ultimi giorni del maggio, il fronte cominciò a muoversi visibilmente; tutta la guerra sembrò assumere un altro ritmo, parve accelerare improvvisamente i propri tempi e le armate Alleate diedero l’impressione di potere dilagare rapidamente per tutta l’Italia e per tutta l’Europa. Il 4 giugno Roma veniva liberata e due giorni dopo, sbarcando da oltre Manica, centinaia di migliaia di uomini (divenuti all’inizio di luglio un milione e mezzo) mettevano piede sul continente. Il “secondo fronte”, da tanto tempo atteso e quasi invocato, era stato aperto e ciò non poteva non determinare una svolta di accelerazione alle operazioni belliche, una svolta che veniva immediatamente avvertita dalle popolazioni.

Nello stesso tempo la Resistenza armata faceva un improvviso balzo organizzativo e quantitativo. Nel giugno i partigiani armati raggiungevano il numero di 82 mila uomini, secondo una valutazione, verosimilmente molto arrotondata per eccesso, dello Stato maggiore di Graziani; o di 50 mila, se prestiamo fede ad un calcolo proposto da Pietro Secchia e Filippo Frassati che comunque mettevano in evidenza il fatto che – se ci fossero state armi a sufficienza – tale numero sarebbe stato triplicato e non sarebbe stato necessario respingere la maggior parte dei giovani che si presentavano alle formazioni chiedendo di combattere 2. Entro settembre si sarebbe giunti a 80-100 mila uomini armati, «che rappresentano la massima espansione delle forze partigiane in termini di individui effettivamente inquadrati» 3.

Tuttavia, al di là delle cifre e dell’armamento – che in ogni caso non sarebbe mai stato né sufficiente né adeguato alla tipologia degli scontri che si sarebbero svolti in montagna e in città – in tutto il territorio nazionale che si stendeva dalle vallate alpine fino all’Italia centrale ed alle immediate retrovie del fronte, con l’arrivo della buona stagione e dopo la liberazione di Roma l’attività partigiana sembrò esplodere in maniera incontenibile, raccogliendo i frutti della lunga preparazione invernale e primaverile.

Lo ha rilevato lo stesso Albert Kesselring nelle sue memorie, ricordando le preoccupazioni tedesche di fronte alla repentina espansione della guerriglia:

Dopo l’abbandono di Roma si ebbe un inasprimento dell’attività partigiana, in misura per me affatto inattesa. Questo periodo di tempo può essere considerato come la data di nascita della “guerra partigiana illimitata” in Italia. L’afflusso di nuovi elementi alle bande, che agivano specialmente tra il fronte e gli Appennini, andò intensificandosi in modo visibile [...]. A partire da quell’epoca la guerra partigiana diventò per il comando tedesco un pericolo reale, la cui eliminazione era un obiettivo di importanza capitale 4.

In maniera ancora più esplicita ha osservato Lutz Klinkhammer:

Dopo la presa di Roma [...] il pericolo rappresentato dai partigiani nelle montagne appenniniche era diventato così forte che [...] si doveva ormai parlare di un movimento insurrezionale pianificato e impostato militarmente, che non poteva più essere qualificato con disprezzo come mero banditismo: si trattava piuttosto di un nemico che combatteva secondo i principi della guerriglia alle spalle delle truppe al fronte e che – come si dovette ammettere – era quasi impossibile contrastare in modo efficace 5.

Se i tedeschi si andavano convincendo di trovarsi di fronte ad una guerriglia sempre più dilagante e quindi pericolosa, tanto da dover essere presa in seria considerazione e da richiedere un consistente intervento armato per limitarne le conseguenze; i fascisti di Salò, in quegli stessi giorni di giugno, secondo la ricostruzione che ne ha fatto Dianella Gagliani, si trovavano “sull’orlo del collasso e dello sbandamento totale”. Mussolini, “richiesto da diversi ministri di assumere un più deciso e più largo orientamento di governo e di presentarsi con un discorso alla nazione [...], si era di fatto negato. Come avrebbe, del resto, potuto rincuorare gli stessi fedeli? 6. Dai Notiziari della Guardia nazionale repubblicana risultava evidente la preoccupazione degli stessi estensori per la propria incolumità personale7: dopo il messaggio con cui il generale Alexander, comandante in capo delle forze alleate in Italia, chiamava all’insurrezione partigiana, ognuno di quanti avevano aderito alla Repubblica sociale “sembrò avvertire il rischio di ritrovarsi da solo davanti alla Resistenza vittoriosa e temette per la propria sorte”8. Da più parti ed in maniera sempre più insistente si cominciò a chiedere di armare il partito, tutto il partito e non solo le forze armate: era assolutamente necessario che ogni fascista repubblicano fosse messo in condizione di usare le armi contro tutti quegli italiani, sempre più numerosi e aggressivi, che rifiutavano il loro consenso alla Repubblica di Mussolini.

Nacquero così le Brigate nere, con lo scopo dichiarato di eliminare sistematicamente l’opposizione di massa al fascismo repubblicano.

Progressivamente i fascisti si rifugiarono nelle città, che vennero controllate e presidiate, abbandonando il controllo del territorio, per loro sempre più insicuro. Nelle vallate, nei paesi di montagna e spesso nei borghi agricoli si allontanarono – a volte vennero fatti fuggire – dalle caserme della Guardia nazionale repubblicana e dalle vecchie stazioni dei carabinieri9.

Possiamo concretamente renderci conto della espansione della Resistenza nel corso dei mesi estivi analizzando l’attività delle formazioni partigiane dell’Emilia Romagna per le quali possediamo dati quantitativi e qualitativi pressoché completi10.

Il primo elemento che appare di per sé significativo è rappresentato dal numero delle azioni partigiane che vennero portate a compimento.

In tutto il territorio regionale, nel corso del mese di maggio 1944 si ha notizia di 434 interventi eseguiti dai “ribelli”. Essi divennero 618 in giugno, 864 in luglio, 1006 durante il mese di agosto e ben 1417 in settembre, quasi 50 azioni al giorno. Poi, con la fine di quella buona stagione che permetteva una alta mobilità partigiana, le azioni cominciarono a diminuire e furono 838 in ottobre e 638 in novembre.

Particolarmente significativa la provincia di Bologna, che passò da 32 azioni in maggio a 356 in settembre, e quella di Ravenna dove in maggio erano state condotte a termine 47 azioni, che diventarono 219 in settembre.

A questi dati quantitativi, ne possiamo affiancare altri, qualitativamente significativi.

Per prima cosa, se esaminiamo la tipologia della attività partigiana, dobbiamo indubbiamente riscontrare la presenza di interventi che avevano come proprio obiettivo la interruzione delle comunicazioni telefoniche e telegrafiche attraverso il taglio dei fili di collegamento o altri che riuscivano a far saltare i binari delle ferrovie o che facevano in modo che si disperdessero i raduni del bestiame razziato o che impedivano la trebbiatura del grano rendendo inutilizzabili le macchine o, infine, che incendiavano magazzini e depositi militari o contenenti beni che potevano essere utilizzati a fini bellici. Si trattava senza dubbio di azioni che comportavano una pericolosità abbastanza limitata durante la esecuzione, anche se non dobbiamo dimenticare che si agiva comunque in territori spesso fortemente presidiati e controllati da reparti armati.

Tuttavia – oltre a queste azioni che abbiamo ricordato – ci furono i combattimenti veri e propri, tanto è vero che ben il 35,7 per cento delle azioni partigiane condotte nel corso del mese di giugno causarono morti e/o feriti ai tedeschi o ai fascisti e tale percentuale salì al 45,1 nel mese di settembre: quasi la metà delle azioni partigiane finì dunque in quel mese con morti o feriti fra gli avversari. Si può ricordare che nel giugno in provincia di Reggio Emilia ben il 67,7 per cento delle azioni partigiane provocò morti o feriti11.

Una seconda considerazione può essere significativa, quella relativa alla “scelta” dell’avversario contro cui operare e da colpire. Se in giugno il 61,3 per cento dei colpi partigiani fu rivolto contro i fascisti e solo il 19,4 per cento contro i soldati tedeschi, tale rapporto tese via via a modificarsi fino a rovesciarsi. In settembre il 42,4 per cento delle azioni partigiane ebbe come proprio obiettivo i tedeschi e il 27,1 per cento i fascisti. In questo stesso mese di settembre vanno segnalati Forlì con il 63,4 per cento e Ravenna con il 65,3 per cento della attività partigiana rivolta contro i soldati tedeschi12.

Una guerriglia intensa, dunque, sia per la quantità delle azioni portate a compimento, sia per gli obiettivi che vennero colpiti. Quelli che, all’inizio, erano soltanto giovani renitenti alla leva senza alcuna esperienza militare e che dovettero essere addestrati all’uso e al maneggio delle armi, in pochi mesi seppero trasformarsi in combattenti in grado di affrontare anche complessi combattimenti, come fu indubbiamente la battaglia per la liberazione di Ravenna, una manovra “irradiante” di primo ordine per ordinamento e capacità tattica che prevedeva una concentrazione a tergo dell’avversario e l’attacco su sette direttrici divergenti13. Né va dimenticato che, proprio per le capacità dimostrate, due reparti partigiani emiliano-romagnoli furono scelti come parte integrante dell’esercito alleato ed entrarono a pieni ranghi uno, la 28.a brigata Mario Gordini, nell’VIII Armata britannica, l’altro, la Divisione Armando, nella V Armata americana e vi combatterono partecipando alle operazioni della primavera 1945 fino alla smobilitazione al termine del conflitto in Italia.

Evidentemente il clima generale e quella che potremmo chiamare la diffusa mentalità popolare erano cambiati profondamente negli otto mesi che trascorsero dopo l’8 settembre14. Allora evidentemente era prevalso – negli italiani e negli emiliani – un atteggiamento generale di stanchezza dopo tanti anni di guerra, di violenze compiute e subite, di morte e di sacrifici. Il rifiuto del fascismo e la mancata adesione di massa alla Repubblica sociale italiana furono prevalentemente determinati da un rifiuto dei motivi di fondo che venivano sottesi o dichiarati come finalità per la ricomparsa di Mussolini al fianco dei tedeschi: nel modo più assoluto non si voleva continuare a combattere. Se in alcune zone del Paese motivi patriottici e tradizioni risorgimentali fecero sì che qualche gruppo prendesse immediatamente le armi e cominciasse ad opporsi contro quello che appariva come il tradizionale nemico tedesco, contro il quale si era lottato negli anni della Unificazione nazionale e durante la Grande Guerra e che ora aveva invaso ed occupato il territorio italiano; altrove ci si limitò a rifiutare lo Stato fascista, a non rispondere alle chiamate della leva e ad attendere gli eventi: a nascondersi, come aveva fatto Pasquino, aspettando la buona stagione.

Al di là di piccoli gruppi attivi, di fenomeni circoscritti di origine totalmente o parzialmente spontanea (che non mancarono neppure in Emilia Romagna: si pensi al gruppo di Silvio Corbari, alla formazione dei fratelli Cervi, alla “banda” Rossi-Barbolini, ai gruppi parmensi e piacentini...); la Resistenza fu necessario costruirla e ciò fu possibile solo con grande pazienza e con grande costanza, grazie alla indispensabile presenza e alla attività delle organizzazioni politiche e sociali che agirono partendo dalla profonda avversione alla guerra e alla politica generale del fascismo per dare spazio alle rivendicazioni e alle richieste di carattere sociale e di massa che il fascismo aveva interrotto e sconfitto politicamente e militarmente nel 1921-22.

Questa stretta connessione fra opposizione attiva e rinascita della conflittualità sociale appare con tutta evidenza nella Pianura padana dove – assente la grande industria, e quindi essendo la regione solo parzialmente toccata dagli scioperi operai della primavera 1944 – la conflittualità assunse i ritmi e i tempi legati alle rivendicazioni delle campagne: dalle mondine, ai braccianti, ai mezzadri. Dovette perciò attendere la primavera 1944 e la ripresa dei lavori agricoli per manifestarsi apertamente e pienamente. Così i contadini sarebbero divenuti i protagonisti della opposizione al fascismo repubblicano e della lotta di liberazione armata, in quanto la lotta per i rinnovi contrattuali o i miglioramenti salariali si unì strettamente allo schieramento attivo contro il neofascismo e l’occupazione tedesca e determinò l’arruolamento nelle formazioni partigiane, come già aveva notato Roberto Battaglia15. In maniera esplicita si univano le parole d’ordine di carattere sociale a quelle con contenuto patriottico e a quelle che chiedevano la ripresa del cammino lungo la via della democrazia. In tal modo, la lotta partigiana assunse maggiore consistenza e livelli di più ampia partecipazione popolare proprio in quei territori e fra quelle categorie sociali dove più profonda e più partecipata era stata l’attività politico-sociale negli anni che avevano preceduto la presa del potere da parte dei fascisti. Soprattutto le vecchie rivendicazioni mezzadrili tornarono in primo piano e ricomparvero quelle stesse richieste contrattuali che avevano caratterizzato gli anni del primo dopoguerra.

Erano valutazioni che Arrigo Boldrini aveva già reso esplicite nel settembre 1943, ma che solo nell’estate 1944 sarebbero state accettate e fatte proprie dai gruppi dirigenti politici e militari della Resistenza della regione. Già da allora Bulov aveva intuito che il coinvolgimento delle campagne avrebbe avuto un ulteriore effetto, quello di trasformare immediatamente in lotta di massa la guerra di Resistenza.

In effetti in Emilia Romagna non furono solo i giovani renitenti alla leva o gli adulti – uomini e donne – più politicizzati a schierarsi attivamente dalla parte della Resistenza, ma furono gli interi nuclei familiari a partecipare, proprio perché la lotta armata contro il nazifascismo assunse dalla tarda primavera del 1944 anche lo specifico significato di quella che possiamo chiamare una battaglia “sindacale” e rivendicativa; il rinnovamento democratico veniva ad assumere in molti casi il significato di un profondo mutamento dei rapporti sociali.

Furono non marginali le situazioni in cui – a livello di mentalità popolare – il movimento di liberazione venne inteso in senso fortemente classista, come se si trattasse, soprattutto e prima di tutto, di una liberazione dai padroni, sia all’interno del non numeroso mondo operaio sia nei territori agricoli gestiti a mezzadria classica. Né mancò, all’interno dei Gruppi di difesa della donna, una lettura che faceva trarre dai comitati di liberazione la possibilità di riprendere il discorso emancipazionista, egualitario e modernizzatore che avrebbe portato alla “liberazione della donna” e che il fascismo, nella sua fase di regime, aveva bruscamente e drasticamente interrotto16.

Con la tarda primavera, la Resistenza come fenomeno spontaneo cedeva progressivamente il passo “a forme di organizzazione, di inquadramento sempre più omogenee e centralizzate. Potremmo definire tutto ciò come un processo di istituzionalizzazione, anche se l’effettiva efficienza delle nuove strutture gerarchiche non va enfatizzata”17. Come ricorda Claudio Pavone, “l’unità assicurata da questi comandi era soprattutto di indirizzo politico e lato sensu organizzativo”18.

Anche in Emilia Romagna, seguendo le indicazioni del Cln per l’Alta Italia, nel mese di giugno cominciarono i contatti fra i partiti politici per la creazione di un comando regionale unico che vide la luce nei primi giorni del mese di luglio19, ma che solo in agosto poté conseguire quella composizione partitica unitaria che avrebbe dovuto caratterizzarlo. Solo alla fine di agosto, infatti, la Democrazia cristiana emiliana diede la propria adesione alla Resistenza20, differenziando così il proprio atteggiamento da quello che aveva caratterizzato la maggior parte delle province che, a volte sin dal 1943 più spesso dalla primavera 1944, avevano visto la presenza attiva, politica o militare, di uomini legati a quel partito, come Benigno Zaccagnini, Giuseppe Dossetti ed Ermanno Gorrieri.

In ogni caso, ma ancora più di quanto accadde altrove, il comando regionale non riuscì ad assumere una direzione effettiva della Resistenza emiliana. I mai superati contrasti, fra gli antichi stati ducali e le province che fino al 1860 avevano fatto parte dello Stato della chiesa, ricomparvero con inattesa veemenza. Già dal maggio i Cln di Modena, Reggio, Parma e Piacenza – appoggiandosi ad un intervento diretto in tal senso che era stato compiuto da Ferruccio Parri – avevano dato vita ad un centro di coordinamento e si erano dichiarati autonomi da ogni “dipendenza” nei confronti di Bologna. Tale ripartizione territoriale si sarebbe riconfermata quando fu creato il Comando militare regionale con sede a Bologna e il comandante regionale, Ilio Barontini, praticamente riuscì a mantenere contatti, più o meno stabili, solo con le province di Ferrara, Ravenna e Forlì21.

Non può sfuggire che nella regione prevalsero i caratteri centrifughi e che ci si trovò di fronte ad una Resistenza nella quale furono estremamente forti gli elementi localistici, con tutto ciò che di bene e di male ne poteva derivare. Non ci fu alcun tentativo di vero coordinamento delle attività militari e di cooperazione fra gruppi e brigate; ogni formazione normalmente rispettava i confini della propria provincia nel presidiare i territori o nel condurre a termine le proprie azioni. Il più importante esperimento di cooperazione, quello che nella seconda metà di giugno, all’interno della Repubblica di Montefiorino, diede vita al “Corpo d’Armata Centro Emilia”, diretto in maniera unitaria da modenesi e reggiani, nella sostanza restò solo una dichiarazione di intenti e di buona volontà, in quanto le singole brigate mantennero dipendenze di carattere provinciale e nessuna operazione comune venne effettuata neppure quando, dal 30 luglio, la “zona libera” dovette subire l’attacco della Wehrmacht22.

Abbiamo appena ricordato Montefiorino. Il nome del piccolo comune delle colline a sud di Modena è ormai assurto a simbolo di quelle che oggi chiamiamo Repubbliche partigiane, ma che allora si definirono molto più semplicemente “zone libere”, un fenomeno che si espanse in tutta l’Italia settentrionale nel corso dell’estate e dell’autunno 1944, dal Piemonte al Friuli, e che in Emilia si estese per gran parte dell’Appennino occidentale, con sedi significative nell’Alto Parmense, a Bobbio, a Varzi e a Borgotaro23. In quelle zone, per molte settimane, nel corso dell’estate 1944, si riuscì a presidiare militarmente il territorio, annullando la presenza fascista e nazista ed esercitandovi, più o meno sistematicamente, il potere. Particolarmente significativo fu il fatto che si tese a riorganizzare (specialmente nei sette comuni che fecero capo a Montefiorino) in maniera democratica le amministrazioni locali, giungendo anche, in alcuni casi, alla elezione dei sindaci.

La liberazione e il controllo del territorio (circa 600 km2 comprendendo i comuni di Toano, Villa Minozzo, Ligonchio, Frassinoro, Prignano, Polinago, oltre a Montefiorino stesso) per oltre quaranta giorni a partire dal 18-19 giugno 1944 permise innanzi tutto di

Coinvolgere vaste porzioni di popolazione in tentativi di “rinascimento” politico e sociale; parole inusuali ed astratte come ad esempio politica, democrazia e uguaglianza, bandite per vent’anni, acquistano finalmente un senso concreto e di responsabilità individuale, di diritto di partecipazione alle decisioni che riguardano la collettività 24.

Ma l’esistenza di una zona libera divenne anche punto di richiamo per una più ampia mobilitazione e di rifugio per quanti erano ricercati o perseguitati, dai più noti antifascisti agli ebrei, che sperarono di trovare un luogo definitivo di asilo.

Non poteva essere così. Anche se in quel territorio si riuscì ad organizzare ed inquadrare quasi 5000 partigiani armati, l’essere a ridosso della Linea Gotica ed attraversato da importanti vie di comunicazione, quali la via Giardini e la strada delle Radici, non poteva consentire che la Wehrmacht ne tollerasse la sopravvivenza e, alla fine di luglio, la “repubblica” venne attaccata e spazzata via, anche se la presenza ed il controllo tedeschi si protrassero per poche settimane e, ad iniziare dall’autunno, quegli stessi comuni ed altri confinanti ripresero una parziale libertà ed una parziale possibilità di autogestione 25.


Nessuna “zona libera” si realizzò nella Pianura padana, un ambiente che veniva considerato “quanto mai sfavorevole alla guerra partigiana, essendo privo di rifugi adatti e caratterizzato da un sistema di comunicazioni che favorisce un esercito di tipo tradizionale” 26. Tuttavia la “battaglia contro la trebbiatura”, che mobilitò le pianure specie da Reggio a Ravenna a partire dagli inizi del mese di luglio, fece sì che la Resistenza riuscisse a divenire largamente egemone nelle campagne ed immobilizzasse politicamente i nazifascisti 27.

Le forze di liberazione si proposero di impedire che i tedeschi si impadronissero del grano e lo trasportassero in Germania. Fu una battaglia che si snodò attraverso una serie di fasi successive: “ritardare al massimo la mietitura; lasciare i covoni di grano in piccole biche disseminate nei campi onde non offrire un ammasso di covoni per la trebbiatura; allontanare al massimo la trebbiatura stessa” 28.

Non si trattava di una ipotesi avanzata dagli organismi dirigenti della Resistenza che i nazisti si apprestassero a razziare e trasportare in Germania la produzione granaria emiliana. Sin dal settembre 1943 lo sfruttamento dell’economia italiana aveva rappresentato uno degli obiettivi prioritari, se non l’obiettivo principale in senso assoluto, della occupazione del territorio italiano 29; nell’estate del 1944 – in particolare nelle province di Ravenna, Forlì e Reggio – il “compito preciso di procedere alla asportazione di grano e alla razzia del bestiame» veniva esplicitamente affidato alle truppe di occupazione che erano invitate «al saccheggio definitivo e senza più limiti del territorio invaso” 30.

Gli energici interventi nazisti e fascisti 31 non riuscirono ad incidere in quello che fu un “concerto armonioso” - come lo definisce Luigi Arbizzani 32 - fra azione partigiana e azione rivendicativa ed economica che saldò definitivamente le rivendicazioni politico-patriottiche con quelle del mondo del lavoro che vide, nella difesa del prodotto delle campagne, non solo la salvaguardia della propria attività e delle proprie fatiche, ma la base stessa per impostare nuovi accordi di riparto e nuovi tariffari. E questo risultato – positivo per le alleanze che la lotta di Liberazione seppe stringere – fu egualmente positivo in relazione al fatto che si impedì la asportazione dei prodotti. Come veniva rilevato il 30 marzo 1945 dal Capo Dipartimento della MV presso il generale plenipotenziario della Wehrmacht in Italia, l’azione delle “bande” nella regione a sud del Po” aveva “sconvolto” il bilancio alimentare; mancavano “soprattutto i cereali” e restava scoperto, per l’alimentazione dell’esercito tedesco, un “periodo di 1-2 mesi sino al prossimo raccolto. Inevitabili le riduzioni” 33.


La sconfitta politica e militare determinò una dura reazione da parte di nazisti e fascisti che, in linea di massima, andarono a cercare le proprie vittime soprattutto fra la popolazione civile, uccidendo e struprando 34, ma anche creando un profondo clima di insicurezza e di paura. Non solamente le razzie e gli incendi avvenivano nel corso dei rastrellamenti, ma spesso – soprattutto ad iniziare dal luglio 1944 – il passaggio di truppe tedesche in ritirata dal fronte o in fase di trasferimento determinava (ed era lo stesso Guido Buffarini Guidi a segnalarlo a Mussolini) 35 il furto di tutto quanto poteva essere portato via, anche di oggetti non direttamente utili o che anzi avrebbero reso più complicati i movimenti delle truppe in marcia. Oltre agli automezzi, i tedeschi prelevavano anche interi corredi, mezzi agricoli, biciclette, macchine da cucire, radio, cavalli, muli, capi di bestiame dalle stalle, suini, polli e generi alimentari di ogni specie. Raramente era possibile identificare i responsabili di tali furti e dei veri e propri saccheggi che erano divenuti un fatto usuale e quotidiano; le promesse di interventi draconiani, che i comandi continuamente si affrettavano a fare, rimanevano del tutto disattesi.

E poi soprattutto c’erano le vittime che sempre più numerose cadevano, fucilate od impiccate, esposte pubblicamente a monito, o nascoste e sotterrate malamente nei luoghi stessi delle esecuzioni.

Il semplice dato statistico può portare ad effetti di distorsione, in quanto non può contribuire a rendere evidente il clima generale e il contesto nei quali stragi, eccidi ed omicidi di singoli cittadini avvennero; né può far comprendere le differenze, profonde, che caratterizzarono il modo di ammazzare dei nazisti e dei fascisti.

Spesso ci si è chiesti se e fino a qual punto esistesse un rapporto diretto di azione-reazione fra attività partigiana ed omicidi nazifascisti. Se leggiamo semplicemente i dati numerici, potrebbe apparire come reale una tale relazione. In effetti si ebbe un rapido crescendo degli omicidi commessi da nazisti e fascisti a partire dalla tarda primavera del 1944.

Durante il mese di maggio essi furono 14 in tutta la regione, ma stragi ed eccidi crebbero rapidamente di mese in mese: 51 in giugno, 121 in luglio, 112 in agosto, 122 in settembre, fra i quali la strage di Marzabotto. Nel corso dei cinque mesi estivi furono dunque 420, ma non dimentichiamo che fra il settembre 1943 e l’aprile 1945 per ben 1081 volte nazisti e fascisti ammazzarono cittadini emiliano-romagnoli – soprattutto donne, vecchi e bambini – al di fuori di episodi di guerra o di combattimento 36.

È un freddo dato statistico che andrebbe più attentamente valutato ed analizzato rilevando la quantità delle vittime, i luoghi e le occasioni delle uccisioni, chi ne furono gli autori. Una ricerca che in molti casi è ancora da portare a termine, ma per la quale possediamo comunque molti elementi indicativi 37. Ciò che ci sembra necessario sottolineare per prima cosa è una non diretta correlazione fra stragismo e attività partigiana. Anzi: tranne casi particolari, appare evidente che, laddove più intensa e pericolosa era l’organizzazione della guerriglia, più raramente si avventuravano i nazisti ed ancora di meno i fascisti.

La seconda considerazione che possiamo fare è che – contrariamente a quanto avvenne in altre regioni e soprattutto in Toscana – in Emilia Romagna “casi di stragi in cui l’accusa sia stata riversata sui partigiani sono praticamente assenti” e (come ha constatato Paolo Pezzino) non si generò una contrapposizione fra popolazione e resistenti a causa delle uccisioni perpetrate dai nazifascisti 38. È una valutazione che ci pare molto importante in quanto comporta un giudizio positivo sullo stretto legame che nella regione venne saldandosi fra combattenti e popolazione civile e sulla attenta politica del consenso che i comandi partigiani seppero costruire e mantenere anche di fronte alle situazioni più difficili e delicate.

In terzo luogo va rilevato un modus operandi ben diverso dei fascisti rispetto ai nazisti. Quelli, pur partecipando alacremente alle operazioni di rastrellamento condotte dai tedeschi: furono presenti ed attivi sia a Monchio nel marzo che a Marzabotto nel settembre, normalmente concentravano la propria violenza nelle rappresaglie e nelle uccisioni ad personam. In altri termini, se in linea di massima i tedeschi operavano incendiando e massacrando su quei territori nei quali per supposte esigenze di guerra era richiesta una situazione di tranquillità, per cui si riteneva utile distruggere ogni possibile base di appoggio alla guerriglia; i fascisti, normalmente, agivano in città, cioè in situazioni molto controllate e relativamente più tranquille, arrestavano, torturavano ed uccidevano senza ingaggiare particolari combattimenti. Soprattutto avevano scelto il compito di selezionare ed indicare nominalmente chi doveva essere ucciso, quando a farlo erano plotoni di esecuzione nazisti, consumando in talmodo vendette e rancori anche personali.

Erano stati costituiti dei veri e propri “depositi di ostaggi”, all’interno dei quali scegliere quando si decideva di ammazzare qualcuno.

Il 1° luglio era stato divulgato un ordine, firmato da Kesselring, che provvedeva a riempire le carceri di cittadini – di nulla colpevoli – che venivano detenuti proprio come ostaggi da usarsi per le esecuzioni 39..

Per quel tipo di guerra che i fascisti decisero di combattere e che era quasi esclusivamente una “guerra interna”, dal momento che raramente vennero scelti come obiettivi da contrastare gli “invasori anglo-americani”, non occorrevano indubbiamente né dei “mistici” né dei “santi” né dei “teneri di cuore”, come avevano scritto fra giugno e luglio diversi periodici delle federazioni repubblicane 40. Ma si trattò di una situazione che andò ancor più peggiorando nei mesi successivi all’autunno 1944, tanto è vero che, all’inizio del nuovo anno, il generale Frido von Senger und Etterlin decise di allontanare da Bologna le Brigate nere guidate da Franz Pagliani, sulle quali esprimeva un giudizio non equivoco:

Autentico flagello della popolazione, queste erano altrettanto odiate dai cittadini come dalle autorità... e da me. Le brigate nere erano composte dai seguaci più fanatici del partito (...). Gli uomini di queste formazioni erano capaci di assassinare chiunque, di compiere qualsiasi nefandezza quando si trattava di eliminare un avversario politico 41.

Mussolini non mosse ciglio di fronte ai rapporti che gli giungevano sugli omicidi brutali operati dalle Brigate nere; “i fascisti, anzi, dovevano mostrare la loro tempra ai tedeschi e, quindi, anche superarli, chiaramente nell’attività in cui, nella loro concezione, si palesava il massimo della civiltà, cioè la guerra, che per la Rsi era, tuttavia, una guerra civile” 42. Il “modello” delle SS doveva essere emulato nell’uso della violenza a tutto campo.

E i fascisti emiliani ci riuscirono perfettamente.


Con l’inizio di agosto e l’avvicinarsi del fronte, vennero intensificate le operazioni di sabotaggio su tutte le vie di comunicazione e il 18 settembre il Comando del Corpo volontari della libertà diramò le Direttive operative per la battaglia della Pianura padana: le formazioni partigiane erano in grado e potevano «dare il massimo contributo all’azione alleata per la sconfitta del nemico» 43. Tuttavia già dai primi giorni di settembre (probabilmente il 5), Giorgio Amendola (che dalla fine di luglio si era trasferito a Bologna per coordinare, in qualità di ispettore, le attività delle brigate Garibaldi e nello stesso tempo per intervenire ad una migliore e più efficace organizzazione del suo partito), convinto del valore emblematico che avrebbe avuto il fatto che il capoluogo emiliano fosse riuscito ad autoliberarsi, accogliendo le truppe alleate già con le piazze piene di cittadini in festa, avvertiva il suo partito che “di colpo il problema della preparazione dell’insurrezione aveva assunto una concreta ed urgente immediatezza” 44. Subito tutto fu predisposto perché Bologna fosse in grado di insorgere non appena si fosse profilata la certezza dell’arrivo degli anglo-americani. Varie formazioni partigiane furono fatte confluire nella città o nelle immediate vicinanze. Il 10 settembre Giuseppe Dozza faceva clandestinamente rientro in quella Bologna dalla quale era assente da diciassette anni, trascorsi in esilio, e nella quale tornava come sindaco designato 45.

La data per l’insurrezione venne fissata al 25 settembre, ma nel frattempo il clima insurrezionale prese salde radici nelle province di Modena, Ravenna e Bologna (oltre, naturalmente, Forlì, dal momento che Rimini venne effettivamente raggiunta dall’VIII Armata britannica). Un clima insurrezionale che fu evidente nelle manifestazioni popolari che portarono alla temporanea liberazione di intere località: il 3 settembre a Bondanello di Castel Maggiore, il 10 a Castenaso e Medicina, il 14 a Galliera, il 17 ad Anzola e San Pietro in Casale.

Evidentemente – come avrebbe scritto Ferruccio Parri qualche anno dopo 46 - da parte dei bolognesi c’era stata una eccessiva fretta o una sopravvalutazione della volontà e capacità offensive degli Alleati; ma va anche considerato che la V Armata americana continuò fino al 13 ottobre ad inviare istruzioni relative all’ingresso nel capoluogo emiliano, inducendo quindi il comando partigiano a rafforzare e protrarre le misure che dovevano portare alla liberazione della città 47. Un comportamento che resta ancor oggi del tutto inspiegato: perché Mark Clark sollecitava i bolognesi a tenersi pronti, quando già dal 6 ottobre aveva avvertito il proprio Stato maggiore di poter mantenere l’offensiva solo per pochi giorni ancora, probabilmente non oltre il 9 o 10 ottobre? 48

Ci furono senza dubbio errori di valutazione: la strage di Marzabotto alla fine di settembre avrebbe dovuto mostrare con evidenza che i tedeschi stavano tentando di consolidare il territorio alle loro spalle e che non erano più sottoposti ad una pressione che li costringesse a continuare la ritirata. Contemporaneamente si rafforzavano i presidi fascisti e tedeschi in città: anche questo sembrò sfuggire ai partigiani. Ma il 20 ottobre i nazifascisti passarono all’offensiva, cominciando sistematicamente ad attaccare e smantellare le basi partigiane. Il 20 ottobre appunto fu la volta della cosiddetta battaglia dell’Università, con l’uccisione dei partigiani del Partito d’azione, attaccati e battuti fra via Zamboni e via San Giacomo; il 7 e il 15 novembre furono attaccate le basi di Porta Lame e della Bolognina, che invece riuscirono a sfuggire all’accerchiamento e a sganciarsi. In ogni caso, troppo a lungo le formazioni partigiane si erano trattenute in città, in un terreno non ben conosciuto e sul quale (per il tipo di armamento e per la configurazione delle strade di Bologna) ben difficile sarebbe stato, come fu, condurre combattimenti contro eserciti tradizionali 49.

Ancor prima che Alexander avvertisse, il 13 novembre, che l’offensiva «condotta senza interruzione fin dopo lo sfondamento della linea gotica era finita» sarebbe dovuto apparire chiaro che la liberazione della regione era rinviata alla fine dell’inverno 50.


Dopo la grande stagione estiva, durante la quale la Resistenza aveva conosciuto momenti epici e aveva portato a termine un crescendo di azioni riscuotendo un sempre maggiore consenso popolare, cominciava la lunga e dura attraversata che avrebbe portato all’aprile 1945.

Solo la provincia di Forlì, la parte orientale di quella di Ravenna (compreso il capoluogo) e la parte meridionale di quella di Bologna avevano visto la fine della guerra negli ultimi mesi del 1944.





* Università di Bologna.

1. Testimonianza di Ezio Vignaroli Pasquino registrata in Montefiorino, agosto 1969.

2. Il primo dato, calcolato dall’Ufficio operazioni dello Stato maggiore dell’Esercito repubblicano, è pubblicato da Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana. Settembre 1943 – maggio 1945, Bari, Laterza, 1966, p. 386; il secondo è ipotizzato in Pietro Secchia – Filippo Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di liberazione in Italia 1943 - 1945, Roma, Editori Riuniti, 1965, p. 656.

Il Comando generale del Cvl valutava a metà luglio la presenza di poco più di 66 mila uomini, non tutti armati (cfr. Allegato bis della circolare su Organizzazione di zone controllate dalle formazioni partigiane del 19 luglio 1944, in Giorgio Rochat, a cura, Atti del Comando generale del Corpo volontari della libertà. Giugno 1944 – aprile 1945, Milano, Angeli, 1972, pp. 106-115).

3 Santo Peli, La Resistenza in Italia. Storia e critica, Torino, Einaudi, 2004, p. 86.

4. Albert Kesselring, Memorie di guerra, Milano, Garzanti, 1954, p. 252 (ed. orig.: Bonn, 1953).

5. Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943 – 1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 346.

6. Dianella Gagliani, Brigate nere. Mussolini e la militarizzazione del Partito fascista repubblicano, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, p. 86.

7. Paolo Corsini – Pier Paolo Poggi, La guerra civile nei notiziari della Gnr e nella propaganda della Rsi, in Massimo Legnani – Ferruccio Vendramini (a cura), Guerra, guerra di liberazione, guerra civile, Milano, Angeli, 1990, p. 266.

8. D. Gagliani, Brigate nere, cit., p. 83.

Il messaggio di Alexander fu lanciato il 6 giugno 1966; vedine il testo in Pietro Secchia – Filippo Frassati, La Resistenza e gli Alleati, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 111-112. Il comandante britannico ribadì l’invito alla insurrezione partigiana con altri due messaggi lanciati il 7 e il 9 giugno, ivi, p. 112.

9. S. Peli, La Resistenza in Italia, cit., pp. 94-95.

10. L’elenco delle azioni partigiane in Emilia Romagna è stato ricostruito, sulla base dei documenti coevi, da un gruppo di lavoro coordinato da Luciano Casali e Dianella Gagliani; esso è consultabile in www.dds.unibo.it/guerraeresistenza.

11. Luciano Casali, Cumer. Il “Bollettino militare” del Comando unico militare Emilia-Romagna (giugno 1944 – aprile 1945), Bologna, Istituto per i beni artistici culturali e naturali della Regione Emilia-Romagna – Editore Patron, 1997, Tavola 3, p. 30.

12. Ivi, Tavola 11, p. 49.

13. Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana 8 settembre 1943 – 25 aprile 1945, Torino, Einaudi, 1964, p. 454.

14. Tranne diverse, specifiche indicazioni, per le considerazioni che seguono rinviamo alle fonti e alla bibliografia citate in Cumer, cit., pp. 9-60 e in Emilia Romagna, in Enzo Collotti – Renato Sandri – Ferdinando Sessi (a cura), Dizionario della Resistenza I: Storia e geografia della Liberazione, Torino, Einaudi, 2000, pp. 470-492.

15. Il fenomeno è messo in evidenza nella seconda edizione della Storia della Resistenza italiana, cit., passim e ancora di più in L’Emilia nella storiografia della Resistenza in Roberto Battaglia, Risorgimento e Resistenza, Roma, Editori Riuniti, 1964, pp. 227-253.

16. Cfr. Luciano Casali – Gaetano Grassi, Liberazione, in Dizionario della Resistenza, cit., p. 326.

17. S. Peli, La Resistenza in Italia, cit., p. 86.

18. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1991, p. 150.

19. Tradizionalmente è sempre stato indicato il 9 giugno 1944 come data della nascita del Cumer, ma si tratta di una indicazione del tutto improbabile e da posticipare di circa un mese; cfr. Cumer, cit., pp. 10-11.

20. Nazario Sauro Onofri, Intervento, in Pietro Alberghi, Partiti politici e CLN, Bari, De Donato, 1975, p. 558.

21. Cfr. Cumer, cit., pp. 12-16.

22. Anche se non tutte condivisibili, le più ricche e attente osservazioni sono ancora quelle di Ermanno Gorrieri, La Repubblica di Montefiorino. Per una storia della Resistenza in Emilia, Bologna, Il Mulino, 1966, pp. 343 sgg.; per quanto riguarda la provincia di Reggio Emilia, cfr. Guerrino Franzini, Storia della Resistenza Reggiana, Reggio Emilia, Anpi, 1966, pp. 215-225, 244-253.

23. Per un quadro di riferimento generale cfr. Massimo Legnani, Potere e amministrazione nelle Repubbliche partigiane. Studio e documenti, Milano, Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione, [1967]; per l’Emilia Romagna, cfr. Saggi e notizie sulle “zone libere” nella Resistenza emiliana, Imola, Editrice Galeati – Deputazione Emilia-Romagna per la storia della Resistenza e della guerra di Liberazione, 1970.

24. S. Peli, La Resistenza in Italia, cit., pp. 98-99.

25. Sui limiti militari della difesa del territorio libero e gli errori tattici del comando partigiano, cfr. Claudio Silingardi, Una provincia partigiana. Guerra e Resistenza a Modena 1940-1945, Milano, Angeli, 1998, pp. 290-292.

26. S. Peli, La Resistenza in Italia, cit., p. 96.

27. Gli inviti a non trebbiare per salvaguardare il prodotto granario dalle razzie tedesche furono diramati fra la metà di giugno e l’8 luglio dal Clnai e dal Cvl; cfr. Gaetano Grassi (a cura), “Verso il governo del popolo”. Atti e documenti del CLNAI 1943/1946, Milano, Feltrinelli, 1977, p. 148 e Atti del Comando generale, cit., pp. 61-62.

28. Luigi Arbizzani, Azione operaia, contadina, di massa, Bari, De Donato, 1976, p. 235.

29. Enzo Collotti, L’amministrazione tedesca dell’Italia occupata 1943-1945. Studio e documenti, Milano, Lerici, 1963, pp. 140-144.

30. Enzo Collotti, L’occupazione tedesca nelle carte dell’amministrazione militare (ottobre 1943 – settembre 1944), in P. Alberghi, Partiti politici, cit., p. 395.

31. Compreso un bando del comando supremo della polizia di sicurezza e della SD in Italia con la minaccia di fucilazione nei confronti di coloro che non avessero trebbiato. Esso venne pubblicato su tutta la stampa periodica e quotidiana. Vedilo in “il Resto del Carlino” del 9 luglio 1944.

32. L. Abizzani, Azione operaia, cit., p. 235.

33. Il documento è riportato integralmente in E. Collotti, L’amministrazione tedesca, cit., pp. 393-394, 581.

34. Una delle poche ricerche in proposito è quella di Cinzia Venturoli, La violenza taciuta. Percorsi di ricerca sugli abusi sessuali fra il passaggio e l’arrestarsi del fronte, in Dianella Gagliani – Elda Guerra – Laura Mariani – Fiorenza Tarozzi (a cura), Donne guerra politica. Esperienze e memorie della Resistenza, Bologna, Clueb, 2000, pp. 111-130.

35. Lettera di Buffarini Guidi a Mussolini dell’8 agosto 1944, Acs, Spd, Rsi, Cr, b. 16, fasc. 91/6; cfr. anche la relazione del Capo della provincia di Ravenna, Emilio Grazioli, del 5 agosto 1944, Acs, Rsi, Ag, b. 5, fasc. 183, K3/20.

36.Un elenco cronologico in www.dds.unibo.it/guerraeresistenza.

Anche in questo caso – come per l’elenco delle azioni partigiane – il dato numerico potrà essere modificato in relazione al ritrovamento di nuove fonti documentarie.

37. Cfr. il volume sulle stragi nazifasciste in Emilia Romagna, curato da Luciano Casali e Dianella Gagliani, in corso di stampa a Napoli presso l’editore L’Ancora del Mediterraneo.

38. Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Le stragi fra storia e memoria, in Luca Baldissara – Paolo Pezzino (a cura), Crimini e memoria di guerra. Violenze contro le popolazioni e politiche del ricordo, Napoli, L’Ancora del Mediterraneo, 2004, p. 24.

39. Il manifesto che riporta tale ordine in Acs, Mi, Dgps, Ag, cat. Permanenti A5G, b. 152, fasc. 243.

40. D. Gagliani, Brigate nere, cit., p. 223.

41. Frido von Senger und Etterlin, Combattere senza paura e senza speranza, Milano, Longanesi, 1968 (ed. originale: Köln – Berlin, 1960), p. 500.

Sull’allontanamento delle Brigate nere da Bologna, le pp. 501-502.

42. D. Gagliani, Brigate nere, cit., p. 218.

43. Atti del Comando generale, cit., pp. 194-196.

44. Giorgio Amendola, Lettere a Milano 1939-1945, Roma, Editori Riuniti, 1981 (I ed.: 1973), pp. 410-413, 417.

45. Luciano Bergonzini, La svastica a Bologna settembre 1943 – aprile 1945, Bologna, Il Mulino, 1998, p. 143.

46. Luciano Bergonzini, La Resistenza a Bologna. Testimonianze e documenti, I, Bologna, Istituto per la storia di Bologna, 1967, p. 137.

47. L. Bergonzini, La svastica a Bologna, cit., p. 193.

48. Mark Clark, %a Armata americana, Milano, Garzanti, 1952, p. 387.

49. Sulla mancata insurrezione autunnale, rinviamo comunque a quanto abbiamo scritto in Bologna, autunno 1944, in 1944, la lotta di Liberazione, Bologna, Anpi, 2004, pp. 133-141.

50. Il testo delle «istruzioni» impartite da Alexander, in P. Secchia – F. Frassati, La Resistenza e gli alleati, cit., pp. 151-152





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi

NAPOLI - 16 febbraio 2005
- Francesco Paolo Casavola
- Guido D'Agostino
- Paolo De Marco
- Isabella Insolvibile

CATANIA - 22 febbraio 2005
- Giuseppe Barone
- Rosario Mangiameli
- Salvatore Lupo

ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli

CAGLIARI - 7 marzo 2005
- Manlio Brigaglia
- Giangiacomo Ortu


  BOLOGNA - 9 marzo 05

 Luciano Casali

  - Antonio Parisella


PADOVA - 14 marzo 2005
- Angelo Ventura
- Emilio Franzina

TORINO - 16 marzo 2005
- Gianni Oliva
- Claudio Dellavalle

FIRENZE - 17 marzo 2005
- Michele Battini
- Ivano Tognarini

GENOVA - 17 marzo 2005
- M. Elisabetta Tonizzi
- Antonio Gibelli

TRIESTE - 19 marzo 2005
- Raoul Pupo
foto d'archivio
carte storiche
- Enzo Collotti

MILANO - 22 marzo 2005
- Mariuccia Salvati
- Claudio Dellavalle
- Gianni Perona



 
 
 
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