Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

Bari, Napoli,
Catania, Roma,
Cagliari, Bologna,
Padova, Torino,
Firenze, Genova,
Trieste, Milano


Il problema politico della ricostruzione dello Stato e la Resistenza

Gianni Perona*

Una riflessione sulla Resistenza e sul periodo dopo la liberazione, considerati come laboratori politici, può partire dalla constatazione apparentemente banale che in quei brevissimi anni si formano simultaneamente la repubblica e la classe dirigente repubblicana. Un processo di trasformazione eccessivamente rapido, se si tiene conto dell’insieme di istituzioni e di culture che ne erano investiti, e perciò necessariamente imperfetto in alcuni esiti. Esso colpisce tuttavia piuttosto per la sua ricchezza e per la durevolezza dei risultati, i quali non si possono comprendere se non si esaminano un retroterra geografico ampio, e i precedenti culturali anche cronologicamente remoti. L’attenzione deve dunque estendersi non soltanto all’Italia centro-settentrionale e alle zone che sono state teatro della resistenza armata, ma a tutta l’Italia, secondo un criterio che ha guidato il progetto stesso del ciclo di lezioni in cui questa si colloca, e anche all’ambito europeo in cui si formò il linguaggio comune della Resistenza.

Dividerò dunque la comunicazione in due parti. Una è tutta italiana, molto legata a circostanze storiche, ad avvenimenti anche casuali di natura politica e militare; l’altra è dedicata a una dimensione culturale europea, considerata nel lungo periodo, perché non si capisce la resistenza italiana, se non s’intende che essa è parte di un processo (a cui partecipano anche in altri paesi moltissimi italiani) e che ha dei contenuti politici che risalgono molto indietro nel tempo.

Il problema dell’Italia si pone drammaticamente fra il luglio e il settembre del 1943: in luglio incomincia l’occupazione da parte anglo – americana della Sicilia, dopo l’8 settembre, alla notizia dell’armistizio, l’esercito si sfalda, e i territori che erano occupati da truppe italiane passano in altre mani, ivi compreso il territorio metropolitano. Dietro la cronaca dei fatti militari, importa rilevare la situazione di totale disastro istituzionale dello stato nazionale. È una struttura che esplode, non soltanto al centro, nel senso che non ha un capo, non una sede a Roma, non ha più una direttiva governativa di politica civile, né militare, ma che si disgrega sulle periferie, dove si manifesta uno stato di precarietà totale della nostra sovranità, non solo perché gran parte del territorio è sottoposto all’autorità di truppe occupanti, non solo perché due terzi dell’Italia sono invasi dalle truppe tedesche, ma perché si cambia anche, o si cerca di cambiare lo stato giuridico dei territori. Tutta la frontiera di nord – est salta, giacché è praticamente una annessione quella che divide in due territori ad amministrazione diretta tedesca le province di Trento, Bolzano, Belluno, e separatamente le province orientali. Dall’altra parte, c’è una sospensione della sovranità italiana, sia dove c’è il governo militare alleato, quindi in una larga fascia delle retrovie anglo – americane tra Campania, Abruzzi e Lazio, a Napoli e in Sicilia. Anche là dove si esercita, la sovranità italiana è contestata o non autorevole, saltato il sistema fiscale, saltato il sistema finanziario, non c’è la possibilità di tenere in efficienza lo stato. Questa tragedia istituzionale alimenta naturalmente le più varie tendenze disgregatrici, e suscita angoscia in coloro che si sono opposti al fascismo per tutto il periodo precedente; i quali non sanno come mettere in opera un progetto politico per costruire la nuova Italia, e non sanno neanche quanto tempo avranno per elaborarlo.

In fondo, nel settembre 1943, si pensa che l’occupazione dell’Italia potrebbe durare pochi mesi, Rommel pensa di andarsene, tenere al massimo l’Italia settentrionale, e sgombra subito la Sardegna e la Corsica. Gli Alleati non sanno bene che cosa faranno, pensano di occupare l’Italia meridionale, non hanno un progetto sull’Italia centrale, di fronte alla resistenza tedesca si fermeranno. Eventi che non erano così chiaramente prevedibili, nel 1943. Allo sbarco di Anzio, nel gennaio 1944, si pensa che la situazione si sia sbloccata; poi di nuovo a settembre – ottobre 1944, dopo lo sbarco degli alleati in Provenza, si pensa che la liberazione sia imminente. Insomma nessuno prevede che la cosa durerà venti mesi. Per questo, accanto ad un organizzarsi della complessa struttura della resistenza armata, abbiamo anche un laboratorio, un’attività di progettazione politica, febbrile e perfino affannosa. Colpisce, come le prime proposte vengano già fra il settembre e il dicembre 1943. Nell’autunno del 1943 si riuniscono a Milano i federalisti europei, fondano il loro movimento, cominciano a pensare alla struttura di uno stato federale, in una federazione europea, e sono attentissimi ad un problema che il fascismo aveva considerato con diffidenza e ostilità, quello delle minoranze. In questa prospettiva, tra di loro, siamo colpiti dal vedere come ci sia una fortissima rappresentanza valdese ed ebraica. Nel dicembre del 1943, la proposta federalista viene rielaborata, questa volta nella dichiarazione di Chivasso, nella quale alcuni (che saranno anche martiri della resistenza, come Émile Chanoux) cominciano a pensare all’autonomia regionale, in termini di rinnovamento del paese e connettono lucidamente tre elementi: una federazione europea, una federazione italiana, la repubblica. Questo tipo di progettazione appare addirittura utopistica, se si pensa alle forze che potevano mettere in campo gli antifascisti: i resti sparsi di quanto dell’esercito non si era completamente sfaldato o non era stato catturato e portato via dai tedeschi; a cui si aggiungeva poi una volontà di resistenza, certamente non una resistenza tale da contrastare le armate naziste nelle fabbriche, ma capace di esprimersi in grandi scioperi, nel novembre e dicembre 1943, poi ancora nel marzo 1944.

A queste condizioni sfavorevoli si aggiungeva un’altra difficoltà, perché la riflessione antifascista, di opposizione al fascismo, ma anche di studio dello stato fascista, era stata lunga, appassionata, profonda e seria. La pubblicazione di tutti i saggi che sono stati prodotti all’estero e in Italia di analisi dello stato fascista dimostra che si valutavano obiettivamente gli aspetti di modernizzazione, e si cercava di adeguare una proposta democratica alle prospettive di un paese rinnovato. Tuttavia questa lunga riflessione si dava una scadenza in non si sapeva esattamente quale futuro, e improvvisamente si trovò spiazzata, per così dire, dall’esigenza di mobilitare dei giovani che mediamente avevano da diciannove a ventun anni, in una impresa di opposizione frontale. Con la Resistenza si passa dalla opposizione al fascismo, alla negazione e ad un progetto di distruzione militare del fascismo, che è imposto dal contesto nazionale e internazionale, ma fa sì che l’antifascismo debba costruirsi all’interno della resistenza stessa come un momento pedagogico. Quelli che sono alla guida politica del movimento di resistenza, devono anche educare e formare dei cittadini. Alcuni sono partigiani combattenti, altri sono collaboratori civili, che s’impegnano a produrre le istituzioni e il progetto stesso di una vita democratica. Se non ci sono, evidentemente, le condizioni per una pacata e sistematica riflessione, ci sono però delle istanze che la guerra esaspera, esigenze di un rinnovamento assolutamente radicale, a misura del cambiamento nella posta in gioco: se l’opposizione implicava il rischio del carcere, la Resistenza è infatti il rischio della vita, e questa è una differenza che spesso si dimentica nel valutare le implicazioni politiche del movimento di liberazione.

È la radicalità della situazione quella che spiega anche la radicale novità della progettazione politica. Prolungandosi la guerra, e migliorando in parziale compenso le capacità di organizzazione dell’antifascismo, dobbiamo dire poi che, quello che si compie in Italia, è un processo di straordinaria rapidità ed efficacia. La formazione di quello che non chiameremo pomposamente un esercito partigiano, ma certamente una forza combattente molto considerevole, è una costruzione di misure insolite anche a livello europeo, e permette di fondare una richiesta di riconoscimento. Non si tratta mai di una istanza di riconoscimento come stato separato, anche se c’è molta discussione, e se in alcune frange del movimento di liberazione si pensa che la resistenza possa essere la base di un progetto di stato che, sperimentato dall’ambito della resistenza armata, sia prospettato poi a tutto il paese. Questo però significherebbe per la resistenza assumere un ruolo di governo provvisorio, distinto dal governo ufficiale e riconosciuto di Brindisi, poi di Salerno e di Roma, un passo di divisione istituzionale che non viene mai compiuto.

Non è mio compito illustrare questo aspetto, però vorrei sottolineare i due momenti del riconoscimento politico e militare: il 7 dicembre 1944 la Resistenza ottiene il riconoscimento come forza armata dal comando militare alleato, poi, il 26 dicembre, una delegazione del Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, firma un accordo a Roma con il governo nazionale italiano. Questo il passo essenziale: “Il Governo italiano riconosce il Comitato di liberazione nazionale Alta Italia, quale organo dei partiti antifascisti nel territorio occupato dal nemico. Il Governo italiano delega il clnai a rappresentarlo nella lotta che i patrioti hanno impegnata contro i fascisti e i tedeschi nell’Italia non ancora liberata. Il clnai accetta di agire a tal fine come delegato del Governo italiano”. I resistenti diventano quindi autorità di governo nella gestione della guerra di liberazione, ma con un limite evidente, perché le parole chiave sono nella definizione “organo dei partiti”. Insomma il Comitato di liberazione nazionale non è né riconosciuto né costituito come un organo statuale, se pure pro tempore delegato: la Resistenza è riconosciuta solo come coalizione di partiti. Questo, che è certamente un limite, può tuttavia essere considerato una ricchezza, che si percepisce bene attraverso il paragone con la Francia. Là, nel 1940, la repubblica democratica con tutti i suoi partiti rappresentati in parlamento è disastrosamente sconfitta nella guerra, e per conseguenza i partiti stessi vengono accusati di avere la colpa, cioè l’articolazione democratica dei partiti è ritenuta responsabile della sconfitta. La Resistenza francese nasce perciò come organizzazione non di partiti, ma di movimenti, e per lunghi anni avrà una sorta di ostilità verso l’organizzazione partitica della vita politica. Questa si riforma faticosamente e si ricompone - ma ci vorranno quasi cinque anni – un quadro di unità nazionale in cui si rifonda il sistema politico nazionale francese. In Italia, il processo di ricostruzione delle articolazioni politiche della democrazia è straordinariamente più rapido: i partiti non portavano la responsabilità della disfatta, e si presentavano come i protagonisti, i propositori di un discorso nuovo sull’Italia. Non soltanto nell’Italia occupata, ma anche nell’Italia libera. A Bari, dove si era già riunito nel gennaio 1944 il convegno dei comitati di liberazione nazionale, ed anche in Sicilia e in Sardegna, attraverso evoluzioni che sono state drammatiche, anche sanguinose, si incomincia una elaborazione, che sarà complessa e difficile, ma che salva la coesione dello stato nazionale, cioè la soluzione di un federalismo parziale, quello delle regioni a statuto speciale. Se si guardano tutte le regioni che sono oggetto di una tensione internazionale nel settembre 1943, dalla Val d’Aosta, che è oggetto di una dichiarazione del governo francese di Algeri, al Nord Est, di cui si è già detto, alla Sicilia e alla Sardegna, si vede che le regioni a statuto speciale sono esattamente quelle che rientrano nello stato nazionale attraverso una progettazione che viene fatta in questo periodo. Una progettazione unitaria, per cui, effettivamente, in questo biennio, viene ricostruita la base di un discorso politico nazionale del quale si tratta più diffusamente in altri interventi di questo ciclo.


L’altro ordine di considerazioni sulla natura politica della Resistenza si deve fare tenendo conto della dimensione culturale europea, sulla quale non si riflette spesso. Resistenza non è parola propriamente italiana, anche se la si trova come vocabolo tecnico nell’appello del Comitato di liberazione lanciato il 9 di settembre, dove si parla di resistenza contro l’invasione tedesca, in senso quasi meccanico, militare, di reazione all’aggressione. Vale perciò la pena di domandarci come mai la Resistenza, cioè il movimento di liberazione italiano e altri movimenti analoghi europei, dovendo scegliere come denominatore comune un termine per definirsi, abbia adottato quello che era stato scelto dai francesi, tra il 1941 e il 1942.

Certamente la tradizione politica francese è su questo tema d’importanza basilare. Essa ci rimanda a un concetto alto e politico della resistenza, che ci limitiamo a richiamare attraverso due testi. Il 26 agosto 1789 si proclama la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo, enunziante “i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo”*. L’articolo 2 recita: “Lo scopo di ogni associazione politica è la conservazione dei diritti naturali imprescrittibili dell’uomo. Questi diritti sono la libertà, la proprietà, la sicurezza e la resistenza all’oppressione”. La resistenza è dunque uno dei diritti dell’uomo, ed è in questa connessione con i diritti fondamentali, con il diritto di opporsi all’oppressione, che sta il valore politico basilare di questa dichiarazione dei diritti, che si connette poi, in maniera cruciale e diretta, con il problema della costituzione, all’articolo 16. “Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, (cioè neanche il diritto di resistenza, il diritto di opposizione, aggiungiamo noi), né la separazione dei poteri determinata, non ha alcuna costituzione”. Non c’è dunque costituzione democratica in un paese che non garantisce i diritti fondamentali, e la resistenza è uno di questi diritti: resistere vuol dire affermare la necessità di una costituzione.

Passo a un altro documento, molto caro a chi scrive, ma che viene pochissimo ricordato. Si tratta della seconda redazione dei diritti dell’uomo, quella del 6 messidoro dell’anno i, il 24 giugno 1793. È il preambolo della Costituzione dell’anno i, che non fu mai applicata e che contiene delle indicazioni precorritrici straordinarie, che ora siamo abituati a considerare come ordinarie. È la prima dichiarazione in cui sono affermati il diritto al lavoro (articolo 21: “[...] La società deve assicurare la sussistenza ai cittadini in difficoltà [...] procurando loro il lavoro”) e il diritto all’istruzione (articolo 22: “L’istruzione è la necessità di tutti. La società deve favorire con ogni suo potere i progressi della ragione pubblica, e mettere l’istruzione alla portata di tutti i cittadini”), principi che non ci sono nel 1789. Qui interessano soprattutto gli articoli 33, 34 e 35. Articolo 33: “La resistenza all’oppressione è la conseguenza degli altri diritti dell’uomo”, articolo 34: “C’è oppressione contro il corpo della società, quando uno solo dei suoi membri è oppresso; c’è oppressione contro ogni membro, quando il corpo della società è oppresso”, articolo 35: “Quando il governo viola i diritti del popolo, l’insurrezione è per il popolo, e per ogni parte del popolo, il più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri”. Io vorrei suggerire questa chiave di lettura, perché è una lettura alta, politica della terminologia. Chi va poi a leggere i documenti del 1944 –1945, e vede gli appelli all’insurrezione, se li legge senza comprendere questa dimensione politica, di tutela dei diritti fondamentali, che è connessa intrinsecamente con le nozioni di resistenza e di insurrezione, può scambiarli per, come dire, tecniche e modalità di operazioni militari partigiane. Sono certamente anche questo, ma si perde veramente l’essenziale, se non si coglie la connessione che l’affermazione del diritto di resistenza, radicato in un’antica tradizione di rivendicazione dei diritti fondamentali, è la via attraverso la quale si cerca di fondare, appunto in condizioni di emergenza e in tempi straordinariamente brevi, un diffuso - userei una parola sansimoniana - “catechismo democratico”. È da questo punto che può cominciare, una volta liberata l’Italia e fatta l’insurrezione, realizzato questo più sacro dei doveri, la costruzione di un discorso politico sulla costituzione che l’oppressione ha negato e che la Resistenza ha posto come necessaria, anche se certo la crisi del 1943 – 1945 non ha permesso di articolarla in tutte le sue parti.


* Università di Torino e Direttore Scientifico INSMLI:

* Questa citazione, come le successive, sono traduzioni dell’autore di questo intervento, condotte sugli originali pubblicati in Jean Tulard, Jean-François Fayard, Alfred Fierro, Histoire et Dictionnaire de la Révolution française, 1789 – 1799, Paris, Robert Laffont, 1998 (2ème édition).





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi

NAPOLI - 16 febbraio 2005
- Francesco Paolo Casavola
- Guido D'Agostino
- Paolo De Marco
- Isabella Insolvibile

CATANIA - 22 febbraio 2005
- Giuseppe Barone
- Rosario Mangiameli
- Salvatore Lupo

ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli

CAGLIARI - 7 marzo 2005
- Manlio Brigaglia
- Giangiacomo Ortu

BOLOGNA - 9 marzo 2005
- Luciano Casali
- Antonio Parisella

PADOVA - 14 marzo 2005
- Angelo Ventura
- Emilio Franzina

TORINO - 16 marzo 2005
- Gianni Oliva
- Claudio Dellavalle

FIRENZE - 17 marzo 2005
- Michele Battini
- Ivano Tognarini

GENOVA - 17 marzo 2005
- M. Elisabetta Tonizzi
- Antonio Gibelli

TRIESTE - 19 marzo 2005
- Raoul Pupo
foto d'archivio
carte storiche
- Enzo Collotti


  MILANO - 22 marzo 05
  - Mariuccia Salvati
  - Claudio Dellavalle

 Gianni Perona





 
 
 
Inizio pagina - Indice
Precedente -