Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

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La guerra ai civili e il nodo della violenza

Michele Battini*

La “guerra ai civili” è divenuta un paradigma del carattere “totale” della ii guerra mondiale quando la questione della violenza è tornata ad essere un nervo scoperto nella riflessione sulla Resistenza.

Da poco tempo gli storici hanno restituito la dimensione di guerra civile alla Resistenza. Gli scrittori - gli scrittori partigiani o i partigiani divenuti scrittori - l’avevano immediatamente riconosciuta. Era già accaduto con il Risorgimento.

Umberto Saba scrisse che tutta la nostra storia nazionale è impregnata di fratricidio. Roberto Battaglia, l’autore di una pionieristica Storia della Resistenza Italiana e assertore convinto della formula “Resistenza, secondo Risorgimento”, fu il primo a riconoscere che «quella tra patrioti e austriacanti era stata una guerra civile”: fratelli contro fratelli. Rosolino Pilo, il precursore di Garibaldi in Sicilia, non occupò Termini Imerese per non battersi contro i propri due fratelli, borbonici militanti. Carlo Pisacane, patriota, rischiò di battersi contro il fratello Filippo, legittimista e ufficiale di Ferdinando ii, che Nello Rosselli descrive come “un esempio di coerenza ideale”.

Anche in Spagna la guerra civile viene ripensata come epilogo di un passato storico fratricida, e in Francia si allude ad una guerra intestina franco francese che si riaccende dal 1789 al confronto tra Vichy e Resistenza.

Nel 1943-1945, la guerra civile fu del resto temuta ma anche invocata ad esempio da Gaetano Salvemini, che nella Resistenza vide, forse con troppo ottimismo, l’inveramento del progetto mazziniano di quella guerra d’insurrezione per bande che il genovese aveva giudicato “la più conveniente all’Italia”, nonché del sogno dello stesso Pisacane di fare dei briganti e dei contadini l’esercito della democrazia, invece che della santa fede. Claudio Pavone prima ci spiega che la discussione sul Risorgimento e sulla sua tradizione è stata la matrice delle scelte intellettuali di fascisti e antifascisti poi, con il suo saggio sulla moralità nella Resistenza, ne descrive la pluralità delle dimensioni: la guerra di liberazione dall’occupante nazista, la guerra per la giustizia sociale, la guerra civile tra fascisti e antifascisti. Si rileggano le pagine manzoniane del capitolo vii di quel suo saggio - dedicate alla violenza nel contesto della guerra, alla violenza dei resistenti e a quella dei fascisti, all’autodisciplina, al sistema punitivo, alle rappresaglie e alle controrappresaglie: sono tra le più innovative di tutta la letteratura storiografica. Quindici anni prima, in Resistenza e storia d’Italia, Guido Quazza aveva già aperto la riflessione storiografica sulla violenza, quella fascista, essenza del regime, e quella collettiva organizzata dal basso in una potenziale forza insurrezionale, che riceve nutrimento dalla scelta come spinta esistenziale, magari priva di motivazioni chiare, ma in cui si esprime il “centro morale di una possibile Italia nuova”.

La guerra civile, come oggetto di storia, scaturisce dunque dall’attenzione storica e dalla preoccupazione etica per l’uso e gli effetti della violenza. A sua volta la “guerra ai civili”, al centro della recente successione di studi di una più giovane generazione di studiosi che non ha avuto il privilegio di quella che i greci chiamavano «autopsia» è figlia della prima e dell’allargamento delle ricerche dai temi precipuamente politici (i partiti, il cln, il governo monarchico, le relazioni con gli Alleati), o militari (le bande, il Corpo Volontari della Libertà, l’insurrezione), alla dimensione della soggettività, inaugurato proprio da Quazza e da Pavone.

Lo spostamento degli interessi storiografici e l’allargamento dell’indagine alla deportazione, all’internamento dei militari, alle donne, alle comunità locali, nonché la moltiplicazione conseguente delle fonti di indagine, non deve indurci a conclusioni affrettate sulle nostre conoscenze sulla Resistenza militare e sulla guerra partigiana. Pur considerevolmente aumentate queste non sono ancora, allo stato attuale, esaustive, come non lo sono quelle sulle istituzioni politiche della Resistenza, i renitenti, gli occupati nell’industria o le vittime dei bombardamenti. Tale condizione di inevitabile e parziale incertezza conoscitiva è, ovviamente, il riflesso - dello stato degli studi, ma anche della difficoltà dell’oggetto di studio - la situazione magmatica della Resistenza - di cui il carattere fluido della «banda», la formazione partigiana per eccellenza, rimane il miglior paradigma: tensione mai risolta tra spontaneità e organizzazione, brevità dell’esperienza, pendolare oscillazione tra il farsi e disfarsi. Come ha scritto Gianni Perona, (e nonostante i risultati notevoli dei lavori sulle brigate partigiane dello stesso Perona, Carocci, Grassi, Camilla, Cappelli, De Luna, Vitali): siamo di fronte a molti «indizi affioranti che ci rinviano ad una complessità dell’universo partigiano, sinora appena sondata». Nel contempo però il campo degli studi si è allargato: una riflessione originale sul ruolo delle donne è affiorata ad esempio dalle pagine della Bravo, della Rossi-Doria, della Siddons, della Gagliani; mentre le monografie di Cavazzoli, Guiderzo, Silingardi e altri intorno a varie province e comunità hanno aperto scenari inediti sulla storia sociale della Resistenza, sulle strutture economiche nel periodo di guerra, sulle condizioni materiali di vita, sui centri del potere territoriali sopravvissuti al crollo dello Stato intervenuto nel 1943: quadri locali di una storiografia totale da cui emergono sempre nuove acquisizioni, ad esempio sui vescovi e i sacerdoti cattolici attestati spesso in un ruolo di tutela «benedettina» delle popolazioni di fronte ai poteri fascisti repubblicani e all’occupazione.

La questione ci riporta alla “guerra ai civili”. Le multiformi disposizioni d’animo della società rurale, tra sfiducia conclamata verso tutto ciò che concerne lo Stato, atavica diffidenza verso il potere e cristiana solidarietà verso i renitenti, accolti come sostituti dei figli in grigioverde lontani da casa, sono state indagate con maggiore acribia. Si è affrontata la differenza tra gli esiti del fenomeno della renitenza in un Mezzogiorno ormai indisponibile a rinnovare, dopo l’otto settembre, qualsiasi ulteriore sacrificio innanzi alle nuove chiamate da parte di un Regno d’Italia totalmente discreditato, e quelli al Nord, in cui la renitenza e la diserzione dall’esercito di Graziani hanno offerto una base alla resistenza militare: “fare la guerra per non doverla fare”, anche se la maggioranza dei renitenti si rifiutò di compiere il salto nella guerra di guerriglia.

Riconsiderare la “guerra ai civili” significa innanzitutto mettere a fuoco un aspetto importante di quel problema della violenza indagato da Quazza e da Pavone: la violenza che si rovescia sulla società civile attraverso i massacri della popolazione perpetrati dalle truppe di occupazione ma anche dai “fratelli italiani”, i collaborazionisti: operazione che non può prescindere da questo ripensamento storiografico della storia della Resistenza effettuato negli ultimi trent’anni grazie ad una consapevole nuova molteplicità di approcci, di indagini locali rigorose su documenti d’archivio, di inchieste di storia orale sul campo, di microstorie. Un lavoro ben lungi dall’essere esaurito, che perciò impone continue verifiche empiriche e cautela nelle conclusioni necessariamente provvisorie, ma che vale la pena sulle sudate carte, perché offre a mio avviso due opportunità: la verifica della natura (sotto un profilo particolare) del sistema di occupazione nazista, e l’indagine sulla complessità delle relazioni tra popolazioni civili e resistenza armata. Un lavoro umile, che impone l’arte della combinazione di sapienza cronologica, pazienza cartografica e immaginazione sociologica.

Assai più che in altre regioni dell’Europa occidentale, l’occupazione in Italia da parte della Wehrmacht, delle forse di polizia e delle ss fu connotata da una progressione della violenza sulla società civile, la cui cause sono molteplici: la reazione dei comandi tedeschi all’armistizio e alla nuova posizione diplomatica dell’Italia (che avrebbe terminato il conflitto sul fronte delle alleanze opposto a quello in cui l’aveva iniziato); le circostanze tattiche delle operazioni militari nel corso della lunga e lenta ritirata dal Sud, che resero necessari ben due anni per liberare la penisola; l’emergenza della Resistenza come «nuovo fronte di combattimento» (secondo la definizione del feld-maresciallo Kesselring). Prescindendo dall’immediato precedente dei massacri sui diversi teatri di guerra mediterranei e balcanici, quei massacri che avviarono il disarmo, la cattura e la deportazione in massa dei soldati italiani dopo l’8 settembre (massacri per i quali fu cruciale la decisione del comandante supremo della Wehrmacht, Keitel, di eseguire l’ordine del Führer contro gli ufficiali del regio esercito), la violenza contro i civili può essere considerata l’effetto di un sistema di ordini repressivi adottati contro le popolazioni, non come risposta alla loro ribellione, bensì come blocco di misure per prevenirne l’indisciplina e l’ostilità.

Vi è a mio avviso un rapporto evidente tra la formazione del sistema di occupazione e il sistema degli ordini che scateno la guerra ai civili, anche se sulla sua interpretazione gli storici non sono concordi. Il sistema di occupazione- ad esempio secondo Klinkhammer - rifletteva il disordine interno alla policrazia del Reich e il dualismo tra le istituzioni dello Stato e gli apparati del potere specificamente nazisti: Oberkommando dell’esercito e ministro plenipotenziario del Reich, da una parte; vertici delle polizie e delle SS, e amministrazioni speciali del Tirolo e del Litorale Adriatico dall’altra. Al quadro si aggiungono i conflitti di potere all’interno dell’universo caotico delle forze armate e delle istituzioni della Repubblica Sociale. Beemoth: la disordinata confusione di ruoli e autorità aveva avuto origine da due dispositivi contraddittori emanati dal Führer il 10 e il 14 settembre 1943. Tutto ciò è vero, ma sul piano della politica di repressione, da una situazione di condivisione della sovranità tra Rahn (e Rommel) nelle zone occupate, e Kesselring in quelle operative, si sarebbe passati presto a un predominio chiaro della Wehrmacht: predominio diretto nelle zone operative, su tutte le coste, sul litorale Adriatico e in Tirolo, e predominio indiretto nelle altre. Sancito il I maggio 1944, l’accordo tra Kesselring, il comandante in capo dell’esercito, e Wolff, il comandante delle ss, fu pensato con il fine politico di evitare il ripetersi di situazioni di confusione come quella in cui era stata presa la decisione del massacro delle Ardeatine, e significò la vittoria della soluzione militare su quella della politica. L’iniziale disordine policratico cede dunque ad una strategia omogenea e alla chiara suddivisione dei compiti nelle misure di guerra antipartigiana e contro i civili. Nelle retrovie del Nord il capo è Wolff, e in subordine, Debes (Waffen SS), Harster (Sichereits-Polizei e SD), von Kamptz (Ordnungs Polizei) ma costoro agiscono dietro indicazioni strategiche di Kesselring. Nelle aree operative, speciali e sulle costiere, il comando è direttamente di Kesselring, dei generali Vietinghoff (x armata), Lemelsen (xiv armata), e Kübler (litorale adriatico), sino a scendere ai comandanti di corpo d’armata e di divisione.

Dal 17 giugno 1944, data dell’emanazione del primo ordine sui rastrellamenti, al 22 agosto, quando sono ridefiniti i confini delle aree di competenza delle due armate, la serie dei dispositivi, emanati dall’Oberkommando e adattati dalle istanze inferiori, guida le rappresaglie e la guerra ai civili, secondo procedure coerenti e omogenee: il controllo sulle popolazioni; la repressione dei ribelli per tutelare la ritirata verso l’Arno e la linea Verde; i rastrellamenti massicci della popolazione maschile per drenare manodopera da inviare ai lavori per le fortificazioni appenniniche; la punizione della renitenza; la deportazione e l’evacuazione dalle aree e dalle province di interesse strategico. Si costituisce un canone di misure repressive ispirato ad un principio inequivocabile: “considerare qualsiasi civile che ostacoli o inciti ad ostacolare la Wehrmacht come un partigiano che deve essere giustiziato immediatamente”. (La citazione è da un documento autografo di Kesselring).

La documentazione della Wehrmacht rivela anche il paradigma di tali misure: le disposizioni di Hitler per la condotta di guerra contro le bande all’Est del 18 ottobre 1942, applicate per la prima volta in Europa occidentale da Keitel contro i combattenti greci dell’Eλαs in dicembre e poi ridiscusse da Kesselring e Harster alla fine del 1943 in Italia. Il 9 luglio 1945, un Réport inviato dalla Special Investigation Branch al Sottosegretario di Stato britannico concludeva che i massacri dei civili italiani - oggi ne conosciamo l’entità - erano da addebitare non ai singoli comandi delle unità militari coinvolte, ma “ad una campagna organizzata diretta dal Quartier generale del feld-maresciallo Kesselring”. Oggi tale conclusione sull’esistenza di un piano dietro il sistema degli ordini (e la considerazione di questi come indizi probanti) è oggetto di interpretazioni storiografiche divergenti. Klinkhammer e Schieder la contestano, adducendo l’estraneità della maggior parte delle unità dell’esercito ai massacri e, anzi, il coinvolgimento privilegiato di unità speciali indipendenti dall’Oberkommando dell’esercito (in particolare la Divisione Hermann Göring, la I Divisione Paracadutisti e la XVI Divisione Corazzata SS). Lungo la stessa linea, Carlo Gentile sottolinea in particolare il peso dell’esperienza delle campagne di sterminio combattute in Polonia, Russia e Ucraina prima del trasferimento in Italia nelle biografie degli ufficiali confluiti nella XVI SS (von Simon, Reder, Galler).

Altri storici, Collotti, Schreiber, Andrae rinviano invece ad una intenzionalità della condotta terroristica della guerra contro i civili e ritengono inammissibile qualsiasi distinzione nelle responsabilità tra la Wehrmacht e le Waffen SS. Io rimango convinto - allo stato attuale - delle mie conclusioni del 1997: le disposizioni del Comando dell’esercito comportarono l’adozione di un’ottica operativa di tipo squisitamente militare e provocarono l’intensificazione delle procedure preventive. La violenza contro i civili fu intesa dai comandi come la imprescindibile dimostrazione di forza dell’occupante nella prassi quotidiana. Da ciò non consegue che il massacro dei non combattenti deve essere considerata la norma in tutti i territori occupati.. Mi pare illuminante tuttavia che la ricerca sulla Campania, la Puglia, la Toscana e l’Emilia per la redazione di un Atlante delle stragi coordinata da Paolo Pezzino conforti la mia ipotesi, e mi riferisco alle modalità che provocarono 1612 morti in Campania (672 nella sola Napoli) e soprattutto i 3.774 morti toscani sinora censiti (tra un terzo e un quarto di tutti i morti italiani per strage, massacro o eccidio). Circa l’ottanta per cento di questi episodi e di queste vittime non possono essere ricondotti a rappresaglie seguite ad azione partigiana e oltre il dieci per cento fu provocato dai fascisti repubblicani. Anche il gruppo di ricerca finanziata con la legge n. 59 del 1999 della Regione Toscana, coordinato da Enzo Collotti, ha prodotto tre volumi - scritti rispettivamente da Valeria Galimi e Simone Duranti, Absalom e altri, Paolo De Simonis - che concludono nella stessa direzione. La chiave della guerra ai civili sta dunque nella struttura del sistema di occupazione e nella funzione svolta dal sistema degli ordini emanati contro le popolazioni e i resistenti.

- Immaginazione sociologica, pazienza cartografica, sapienza cronologica. La prima virtù, che rese celebre Whright Mills, conosce una buona applicazione per merito del prof. Matta, che ha proposto una tipologia di modelli di violenza, distinguendo tra rappresaglie conseguenti ad azioni partigiane; stragi di civili senza connessione con azioni partigiane; eccidi nel corso di rastrellamenti; eccidi di prigionieri e ostaggi; stragi a scopo terroristico o preventivo; massacri di militari italiani sbandati; stragi compiute da fascisti. Nutro qualche riserva sull’inclusione nella tipologia degli eccidi di ebrei ma il modello è apprezzabile, purché si ricordi che, nel corso di quelle tragedie di sangue impastate di eventi tanto drammatici quanto confusi, compaiono spesso molti elementi che appartengono a “modelli” di violenza diversi. Più precisa può essere invece la cartografia dei massacri.

Fu Federico Chabod, nelle sue straordinarie lezioni tenute nel 1950 all’Institut d’Études Politiques dell’Università di Parigi, a insistere per primo sulla necessità di distinguere tra le esperienze vissute dalle popolazioni del Mezzogiorno, del Centro e del Nord, dal punto di vista del rapporto con la guerra e le istituzioni politiche. L’Italia fu divisa in due e conobbe tre diversi governi e due occupazioni militari. Distinguere le differenze regionali è necessario, al fine di capire i differenti tragitti della storia politica delle diverse parti del nostro disgraziato paese anche nel dopoguerra, ma per le stragi manca ancora un contributo all’altezza di quello offerto da Luca Baldissara con l’Atlante geografico delle formazioni della Resistenza.

Oggi vengono individuate essenzialmente tre aree in cui infuriò la guerra ai civili. La prima zona si può collocare in quella compresa tra il golfo di Napoli e la valle del Volturno, da un lato, e l’Abruzzo e la valle del Sangro dall’altro, lungo la linea Gustav e sul piano: area di massacri diffusi, nonostante la brevità dell’occupazione. Qui e, in particolare, nell’antica Terra di Lavoro in provincia di Caserta, l’entrata in vigore per le truppe tedesche in Italia del Merkblatt 69/1 (la direttiva di combattimento del 1942 contro le bande dell’Europa dell’Est) conobbe un’applicazione famigerata e paradossale. L’inesistenza di formazioni partigiane (ma non di episodi di guerra patriottica o di iniziative clamorose, come il concorso generoso dei civili di Frosinone alla fuga di duemila prigionieri alleati) non impedisce l’esercizio in funzione preventiva della violenza, per punire i contadini e i civili che si oppongono ai saccheggi, al lavoro coatto, alle brutalità: prevenire, appunto, l’insorgere di forme di ribellione sociale endemiche in una regione che conosce nel settembre-ottobre 1943 vari episodi di insurrezione contadina a Matera, a Capua, a Lanciano. Vent’anni fa Nicola Gallerano rivelava già che tali insorgenze per il pane e il carovita - a Calitri, Avellino, Sanza di Salerno, Montesano - non si interrompono dopo la fine dell’occupazione tedesca. Il confine tra le terre d’occupazione tedesca e quelle di restaurata sovranità sabauda, nelle quali permane un sistema di potere locale compromesso con il regime fascista, non arresta quei tumulti e alcuni eccidi si verificano anche nel “Regno del Sud”.

I nuovi storici del Mezzogiorno - Gloria Chianese, Gabriella Gribaudi, Tommaso Baris fra questi - ci insegnano che i massacri provocati dalle truppe tedesche - paradigmatici i casi di Caiazzo e di Bellona in Campania, Rionero in Vulture vicino Potenza, Valle Cannella presso Cerignola, Castello di Scilla presso Napoli, Ortona in Abruzzo - sono provocati dalle reazioni contadine a requisizioni, rastrellamenti, sgomberi, saccheggi e razzie, cioè da quel controllo violento del territorio che nel Sud annulla subito ogni pretesa di mediazione da parte delle residuali autorità fasciste. Nella pagine degli autori meridionali l’uso dell’inchiesta sociologica e delle fonti orali appare finalizzato a perseguire l’obiettivo della ricostruzione del «vissuto antropologico» della guerra e della memoria sociale della violenza: da tale scelta discende l’inserimento del ricordo della strage tedesca in un continuum, e nella percezione di una indistinta violenza bellica, in cui divengono preponderanti le memorie dell’incubo dei bombardamenti alleati e delle violenze materiali e morali subite anche da parte degli Alleati, a partire dagli stupri di massa praticati lungo la linea Gustav dai goumiers algerini e marocchini comandati dal generale Juin. L’inferno che trasuda dalle pagine che conservano la memoria delle donne del Frusinate e del Viterbese ci fa comprendere l’adulterazione letteraria di quella realtà tremenda, proposta nel diario rielaborato a posteriori da Norman Lewis sulla Napoli del 1944, e conferma, invece, la profezia amara annunciata dal protagonista di un celebre testo eduardiano, quel Gennaro Iovine che, sotto il fuoco degli ultimi bombardamenti alleati sulla città partenopea ammonisce che non si può gioire per l’imminente arrivo degli Alleati, poiché il peggio può ancora venire: “Addà a passà a’ nuttata.

Una seconda area la si può circoscrivere alle spalle della linea Gustav, tra la bassa valle del Tevere e il Piceno, tra i monti del Lazio, la Tuscia e il Gran Sasso, ove, tra l’inverno del 1943 e la primavera del 1944, l’avvio di una attività partigiana favorisce il ricorso sempre più frequente alla pratica della rappresaglia. Il teatro della vera e propria “guerra ai civili” è però sicuramente la terza zona, quella appenninica a valle e a monte della Linea Gotica, tra l’Aretino e la Val d’Arno, l’Alta Versilia e la montagna bolognese (tra il Monte Belvedere e il Monte Sole): qui a partire dalla primavera del 1944, i massacri precipitano in zone rurali ma densamente coltivate e abitate, ai danni di una popolazione di contadini coinvolta senza motivo nella guerra preventiva e nella repressione anti partigiana. Si può discutere se tali caratteri siano estendibili alle tragedie delle valli alpine e prealpine, mentre invece la fisionomia assunta dall’occupazione tedesca sul confine est, tra Carso Istria e Friuli orientale, spiega gli aspetti che qui assunse la guerra ai civili, divenendo prossima alla guerra di sterminio tipica delle regioni balcaniche e dell’Europa centro orientale.

Infine la cronologia. I tempi del massacro non coincidono perfettamente con quelli della Resistenza, pur coprendo tutto l’arco delle cinque epoche brevi di quest’ultima: le origini dopo l’8 settembre ’43; la prima fioritura del gennaio-giugno ’44; il riflusso nella seconda metà dell’anno e la crisi dell’inverno ’44-45; infine l’insurrezione. Nella scansione dei tempi delle stragi c’è invece in primo luogo sicuramente il settembre del 1943, quando l’occupazione si stabilizza, dando luogo ad una rivalsa antitaliana che si abbatte per la prima volta sulle popolazioni meridionali (ma c’è anche una prima reazione brutale agli esordi di resistenza inattesa nel Nord, a Boves, Collebrincioni o Canfanaro, in Istria). Poi seguono l’autunno ’43 e il primo semestre ’44, quando i massacri provocati dai rastrellamenti in Campania e in Abruzzo si sovrappongono alle rappresaglie a Roma, alle stragi di civili compiute nel corso delle operazioni Wallerstein sull’appennino tosco-emiliano, alle fucilazioni di prigionieri, partigiani e ostaggi civili in Liguria e Piemonte, ai massacri e alle rappresaglie di Trieste, Opicina e dei villaggi croati della provincia del Carnaro. La lunga torrida estate del 1944 segna infatti l’acmé della guerra ai civili, prefigurata nel sistema degli ordini dell’ Oberkommando dell’esercito che viene varato al suo inizio: il maggior numero di episodi e di vittime che interessano tutta l’Italia centro settentrionale è infatti del periodo che si avvia dopo la liberazione di Roma, quando la guerra ai civili (di cui la rappresaglia, ripetiamolo, è solo un aspetto) si trasforma in una scelta operativa diffusa volta a colpire, come documentano le ammissioni del generale Lemelsen e gli autografi di Kesselring e del suo assistente Beelitz (testimone chiave del processo di Venezia del 1947 ma paradossalmente inescusso al primo dibattimento contro Priebke, mezzo secolo dopo.

Un altro documento, siglato dal plenipotenziario Rahn alla fine dell’ottobre 1944, prova esaurientemente come in questa fase, l’estate del 1944, ogni rispetto del diritto di guerra fu deliberatamente trascurato: lo stesso passaggio, in ottobre ad una logica diversa, non fu l’effetto delle proteste di Mussolini, bensì delle esigenze strategiche tedesche di concentrarsi nella distruzione delle formazioni partigiane dell’Italia settentrionale, in serie difficoltà nel corso della lunga stasi invernale del 1944-1945. Infine dell’ultimo tempo e della recrudescenza terminale dell’aprile 1945, lungo le vie delle ritirata verso la Germania, si è detto.

Io ribadisco insomma la natura sistematica dell’intreccio tra sistema di occupazione e dispositivo di ordini per la guerra ai civili. A mio avviso, esso risulta utilissimo anche a dirimere un’altra vexata quaestio, la presunta responsabilità dei partigiani. In tal caso, infatti, i “partiti” storiografici sono presi da tempo: da una parte c’è chi sostiene che “nella guerra giusta” pertigiana fu inevitabile compiere azioni che, post factum e in tempo di pace acquisita a caro prezzo, possono apparire ingiuste anche alla coscienza morale in nome della quale le si è compiute. Soggiacere al ricatto della rappresaglia avrebbe significato rinunciare alla resistenza armata: questa la tesi enunciata da Alessandro Portelli e da Gabriele Ranzato, di fronte al perpetuo rovello morale dell’azione di Via Rasella. Dall’altra c’è chi ricorda come l’atteggiamento dei partigiani di fronte alla possibilità di rappresaglie non sia stato né lineare né omogeneo, e abbia troppe volte ceduto all’assoluta prevalenza dell’ottica esclusivamente militare, come nei casi di Civitella Val di Chiana e di Bardine San Terenzo in Toscana, o Saint Amand Montrand in Francia. I partigiani avrebbero insomma talvolta escluso troppo facilmente una possibile prassi resistenziale diversa, magari non violenta. Sono i dubbi suscitati da Tzvetan Todorov e fatti propri da Paolo Pezzino.

Io credo che il dualismo morale tra etica della convinzione ed etica della responsabilità possa forse essere applicato nella legittima ricerca della responsabilità o dei meriti nella ricostruzione dei singoli episodi, ma dubito che possa essere esteso alla scala delle relazioni complessive tra sistema di occupazione, popolazioni civili e resistenza armata. È la «natura» - direbbe Tucidide - della guerra ai civili, (un meccanismo volto a schiacciare non solo la lotta armata ma qualsiasi forma di disobbedienza civile, a partire dalla sottrazione delle risorse destinate alla finalità di guerra dell’occupante) che, a mio avviso, impedisce l’uso di tale modello ermeneutico, a meno di non rischiare qualche peccato di anacronismo. La finalità della guerra ai civili mette in discussione non le singole azioni partigiane, ma l’idea stessa di Resistenza, perché ne presuppone l’assimilazione in blocco al tradimento alle spalle e, quindi, precostituisce la ragione sufficiente di ogni rappresaglia e di ogni strage. Il precedente della provocazione partigiana diviene perciò accessorio e fu nei fatti e in molti casi del tutto inesistente. La guerra ai civili venne praticata come una scelta strutturale. Ma se ciò è vero - ed è vero - una storiografia che si limiti a indagare la legittimità della violenza, circoscrivendo la critica alle operazioni militari della Resistenza senza contestualizzarle, o prescindendo dall’intreccio tra sistema di occupazione e sistema degli ordini dell’esercito, è sbagliata perché pecca quantomeno di omissione.

C’è anche questo nodo storico irrisolto dietro l’estenuato dibattito che da anni si intrattiene sulla formula felice, quanto spesso equivocata, della memoria divisa: inaugurata da Giovanni Contini, essa viene troppo spesso banalizzata in un luogo comune funzionale ai seppellimenti equanimi delle ragioni delle vittime e dei carnefici. In origine però essa ha avuto il merito di rimarcare la distanza troppo a lungo taciuta tra le memorie dei sopravvissuti alle stragi e la retorica delle celebrazioni ufficiali, la canonizzazione del ricordo nel discorso ufficiale antifascista. In alcune versioni, come quella di Leonardo Paggi, muove da un presupposto discutibile, l’esistenza di una cosiddetta memoria egemonica della Resistenza. La classe dirigente post-resistenziale dei governi di unità nazionale non fu in grado invece di elaborare una memoria, una religione civile e una liturgia dell’antifascismo a causa della lotta politica che si svolse al suo interno. Certamente esistono memorie diverse, quelle delle comunità e quelle delle istituzioni, ma ci sono anche memorie politiche e codici culturali contrapposti: di tale pluralità di memorie e dei loro quadri sociali - per riproporre la formula di Halbwachs - si può certo fare storia, a condizione di distinguere però la storia dalla memoria e di essere consapevoli di praticare un genere, la storia della memoria, che è anch’essa una narrazione, un discorso, una retorica. Quindi anche della memoria si può e si deve far storia, come di ogni forma retorica, ma il discorso storico non può essere ridotto quello della memoria né interpretato come metafora narrativa. Ciò significherebbe - ammoniva un mio vecchio professore, Arnaldo Momigliano - destituirne ogni fondamento sulle prove e sui dati di fatto. Come ha scritto Yerushalmi: “Lo storico non si limita a colmare le lacune della memoria, perchè [...] il suo scopo più ambizioso è quello di ricostruire un’immagine totale del passato [...]. Nessun documento diviene allora irrilevante [...] o indegno per la sua attenzione, e questo aspetto del suo lavoro va sicuramente contro corrente rispetto alla memoria collettiva che, in quanto tale, è invece selettiva”. Memoria e storia intrattengono insomma tra loro rapporti complicati e segreti: affermiamolo con forza di fronte alla confusione tra rievocazione e giudizio storico che ha condotto, poco tempo fa, uno studioso di stampo democratico a lungo attivo in questa città di Firenze, a dichiarare di preferire l’essere stato dalla parte dei vinti di Salò piuttosto che l’aver ceduto al fascino dei vincitori. La Resistenza viene così disonorata come una risposta opportunistica, come la scelta più comoda di fronte alla leva di Salò. Le due parti, resistenti e fascisti, vengono equiparate e livellate e, a questo punto è facile negare anche ogni specificità nazista alla guerra condotta dai tedeschi e l’esistenza stessa della «guerra ai civili», perché le atrocità sarebbero ineliminabili in qualsiasi guerra, senza eccezioni. Da uno storico che fu anche un testimone non ci saremmo attesi argomenti così risibili.

Salvatore Satta, appena tre anni dopo la fine della guerra civile scriveva: “Quel che restava quaggiù non era una patria, era una terra di nessuno, nella quale la stessa forza si gettava furibonda, e con le torture, le impiccagioni, le deportazioni, gli incendi, metteva un popolo che per venti anni aveva riso di fronte alle responsabilità dei propri atti”. La guerra civile e la guerra ai civili obbligano al riesame delle condotte del periodo bellico, ma anche delle scelte che furono fatte dai governi repubblicani nel dopoguerra. Benedetto Croce fu il primo a invocare una documentazione sulla guerra ai civili, per “serbare esatto il ricordo di un tratto della storia della nostra Italia [...]; mettere sotto gli occhi del mondo con quanti dolori, con quanti grandi danni spaventosi e irreparabili, l’Italia abbia pagato la pena della stoltezza fascista [...]; fornire al popolo tedesco, che ha in gran parte ignorato la qualità e l’estensione di quegli orrori, uno specchio in cui guardarsi”. Nelle parole di Croce vi era già l’imperativo dell’esame di coscienza ma quello veniva addebitato unicamente al popolo tedesco. Si eludevano così questioni gigantesche, come le responsabilità della monarchia per l’avvento e il consolidamento del regime o le colpe del paese nello scatenamento della guerra, componendo una rappresentazione selettiva del passato che colpevolizzava esclusivamente l’ex-alleato nazista: una separazione tra “noi e loro”, una forma di memoria selettiva, un oblio delle proprie corresponsabilità con il Nuovo Ordine hitleriano che certamente non erano isolati nell’Europa del 1945, ma che in Italia corrispondevano alla strategia politica e culturale degli ambienti monarchici e delle alte gerarchie militari e burocratiche dello Stato. Tra il 1946 e 1947 le astuzie dei governanti italiani per evitare la consegna agli Alleati dei nostri criminali di guerra, - i responsabili della guerra italiana contro i civili dei Balcani dell’Albania e della Grecia - e per rallentare l’azione della giustizia verso i gerarchi e gli alti gradi dell’esercito, si sovrapposero al timore degli Alleati di aggravare il conflitto tra le forze politiche italiane, nonché di esasperare la psicologia collettiva, avviando l’azione giudiziaria verso i comandanti tedeschi responsabili delle stragi. Per tali ragioni, il grande processo progettato dagli inquirenti britannici contro gli alti ufficiali responsabili della guerra ai civili e di quella che venne definita la “machinary of reprisals” - il processo che nelle carte del Tribunale Supremo Militare è definita la Norimberga Italiana - non venne mai celebrato e le sue carte furono disperse in varie istruttorie. I pochi dibattimenti avviati in sua vece furono chiusi con sentenze presto indebolite dalla volontà politica di concedere le amnistie e di chiudere la stagione dei processi e dalla totale incertezza di riferimenti giuridici certi, mentre la stessa Procura Generale Militare italiana procedeva all’imboscamento delle molteplici pratiche che coinvolgevano la responsabilità di centinaia di militari tedeschi.

Quell’atto di giustizia mancato, seppellito per decenni nelle carte dell’Archivio di Stato (il Public Record Office) di Londra, ha avuto effetti laceranti sulla stessa memoria storica

Forse oggi, possiamo ricucire quello strappo.







Note


Lutz Klinkhammer, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri, 1993. Rimando, senza alcuna pretesa di completezza, e in ordine cronologico, a Tristano Matta (a cura di), Un percorso della memoria. Guida ai luoghi della violenza nazista e fascista in Italia, Milano, Electa, 1996; Leonardo Paggi (a cura di), Storia e memoria di un massacro ordinario, Roma, manifestolibri, 1996; Michele Battini, Paolo Pezzino, Guerra ai civili. Occupazione tedesca e politica del massacro, Toscana 1944, Venezia, Marsilio, 1997; Giovanni Contini, La memoria divisa, Milano, Rizzoli, 1997; Leonardo Paggi (a cura di), La memoria del nazismo nell’Europa di oggi, Firenze, La Nuova Italia, 1997; Lutz Klinkhammer, Stragi naziste in Italia. La guerra contro i civili. (1943-1944), Roma, Donzelli, 1997; Paolo Pezzino, Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca, Bologna, Il Mulino, 1997; Gloria Chianese (a cura di), Mezzogiorno: percorsi della memoria tra guerra e dopoguerra, numero monografico di «Nord e Sud», novembre-dicembre 1999; Gabriella Gribaudi, Guerra, violenza, responsabilità. Alcuni volumi sui massacri nazisti in Italia, «Quaderni storici», 100, aprile 1999; Leonardo Paggi (a cura di), Le memoria della Repubblica, Firenze, la Nuova Italia, 1999; Alessandro Portelli, L’ordine è gia stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma Donzelli, 1999; Enzo Collotti, Tristano Matta, Rappresaglie, stragi, eccidi, in Enzo Collotti, Renato Sandri e Frediano Sessi (a cura di), Dizionario della Resistenza, vol. I, Storia e geografia della Liberazione, Torino, Einaudi, 2000; Ivan Tognarini, Kesselring e le stragi nazifasciste. 1944: estate di sangue in Toscana, Roma, Carocci, 2002; Bruno Maida, Prigionieri della memoria. Storia di due stragi della Liberazione, Milano, Franco Angeli, 2002;Marco Palla (a cura di), Tra storia e memoria. 12 agosto 1944:la strage di Sant’Anna di Stazzema, Roma, Carocci, 2003; M. Battini, Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana, Roma, Laterza, 2003; Toni Rovatti, Sant’Anna di Stazzema. Storia e memoria della strage dell’agosto 1944, Roma, Derive Approdi, 2004; F. Focandi, I mancati processi ai criminali di guerra italiani in L. Baldissara (a cura di), Giudicare e punire, Napoli 2005.

* Università di Pisa.





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi

NAPOLI - 16 febbraio 2005
- Francesco Paolo Casavola
- Guido D'Agostino
- Paolo De Marco
- Isabella Insolvibile

CATANIA - 22 febbraio 2005
- Giuseppe Barone
- Rosario Mangiameli
- Salvatore Lupo

ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli

CAGLIARI - 7 marzo 2005
- Manlio Brigaglia
- Giangiacomo Ortu

BOLOGNA - 9 marzo 2005
- Luciano Casali
- Antonio Parisella

PADOVA - 14 marzo 2005
- Angelo Ventura
- Emilio Franzina

TORINO - 16 marzo 2005
- Gianni Oliva
- Claudio Dellavalle


  FIRENZE - 17 marzo 05

 Michele Battini

  - Ivano Tognarini


GENOVA - 17 marzo 2005
- M. Elisabetta Tonizzi
- Antonio Gibelli

TRIESTE - 19 marzo 2005
- Raoul Pupo
foto d'archivio
carte storiche
- Enzo Collotti

MILANO - 22 marzo 2005
- Mariuccia Salvati
- Claudio Dellavalle
- Gianni Perona



 
 
 
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