Il percorso della Libertà

Italia 1943 - 1945

Bari, Napoli,
Catania, Roma,
Cagliari, Bologna,
Padova, Torino,
Firenze, Genova,
Trieste, Milano


La resistenza nelle fabbriche e l’insurrezione

Claudio Dellavalle*

Uno dei caratteri distintivi del movimento di liberazione italiano, nella comparazione con i movimenti di resistenza europei che si opposero al fascismo italiano e tedesco, è certamente l’intreccio tra lotta armata e varie forme di resistenza civile, sia nelle campagne, sia nelle città. In particolare gli scioperi e le agitazioni, che coinvolsero molte fabbriche del centro nord con un’ intensità e continuità che non hanno confronti nei comportamenti degli operai di altri paesi occupati. Intensità e continuità che hanno appunto portato, nel corso stesso della lotta di liberazione, a definire la resistenza italiana come un risultato originale e particolarmente efficace. Inoltre la presenza rilevante di operai tra le fila della resistenza armata, il coinvolgimento delle fabbriche nella fase conclusiva della lotta, in particolare nelle vicende insurrezionali delle maggiori città del nord, ha costituito un ulteriore elemento di caratterizzazione.

Quando si parla di resistenza nelle fabbriche non si parla in termini di contributo, ossa come di un elemento che integra un percorso di opposizione, ma si indica una specifica forma di resistenza, che pure nel quadro complessivo del movimento, ha spazi autonomi e dinamiche differenziate che non a caso sono stati oggetto di valutazioni politiche e di ricerche storiografiche importanti. Può non essere inutile ricordare che la riflessione più complessa dedicata alla resistenza italiana da Claudio Pavone ha richiamato accanto alla dimensione della guerra di liberazione dai tedeschi e della guerra civile contro i fascisti della RSI, la guerra di classe che si svolse parallelamente nelle campagne e nelle fabbriche. Anche se lo stesso Pavone ritorna più volte sul concetto di guerra di classe per definirne i contorni, che risultano molto più sfumati di quanto la definizione lasci intendere, possiamo in prima approssimazione ricondurre sotto questa categoria le molteplici manifestazioni di conflitto che videro negli anni 1943-1945 come protagonisti componenti delle classi subalterne e in primo luogo contadini e operai. Va anche detto che questo protagonismo ha avuto una sorte non troppo felice dal punto di vista dell’elaborazione storiografica per molte ragioni, la principale delle quali è la sovraesposizione che quelle lotte ebbero nel discorso politico nel corso stesso della guerra e possiamo dire in quasi tutti i passaggi significativi della storia della Repubblica. Gli sforzi condotti per consegnare alla conoscenza storica un terreno molto carico di tensioni politico partitiche, hanno portato a risultati certamente di notevole interesse, ma, va anche detto, senza giungere ad una valutazione di insieme, ad una sintesi che renda pienamente conto del rilievo di quell’esperienza nel quadro complessivo della storia dell’Italia in guerra. Anzi, in tempi relativamente recenti, quasi a sottolineare quanto le tensioni appena richiamate non abbiano cessato di agire, molti sforzi sono stati impiegati in direzione opposta, per svalutare quell’esperienza e ricondurla ad una condizione di marginalità. Tralasciando ogni intento polemico, in questa lezione si cercherà di individuarne i caratteri fondanti, scontando com’è inevitabile, una maggiore attenzione alla realtà torinese, anche se sarà necessario, per non perdere l’orizzonte complessivo dell’esperienza, richiamare anche altre realtà, e in primo luogo, le realtà milanese e genovese, che allora costituivano con Torino i punti di massima concentrazione degli operai di fabbrica.


L’esercito in tuta blu.

Quando il 5 marzo 1943 si ebbero a Torino i primi scioperi che nel giro di un mese avrebbero coinvolto molte fabbriche della città, del circondario, e in successione altre fabbriche piemontesi per estendersi a Milano e a molte fabbriche lombarde, l’Italia stava concludendo il terzo anno di guerra. Con esiti disastrosi su tutti i fronti. Ora con gli scioperi si apriva la prima grave frattura in quello che era considerato il fronte interno, quello più delicato per la tenuta del regime. E’ bene considerare la crucialità di questo passaggio. In una guerra moderna e in una guerra totale come era divenuta la guerra scatenata da Hitler gli apparati deputati alla produzione contano quanto gli eserciti messi in campo: contano le risorse umane, materiali, e finanziarie che si possono investire, il potenziale delle strutture produttive e la capacità di orientarle efficacemente alla produzione bellica, il livello tecnologico raggiunto nei settori chiave in comparazione con i livelli che il “nemico” può mettere in campo, e infine la capacità organizzativa di portare tutti questi diversi elementi ad alimentare, mantenere e far crescere la macchina bellica. In tutti i punti dell’organismo produttivo orientato alla guerra l’Italia fascista non è in grado di esprimere livelli superiori al nemico con cui deve confrontarsi. Senza entrare in un’analisi che porterebbe troppo lontano, possiamo fare un esempio sufficiente a far cogliere le contraddizioni in cui si muove la mobilitazione bellica dell’Italia. Nel settore aeronautico, settore decisivo nella guerra moderna, le cure del regime, anche per ragioni di immagine, hanno fatto acquisire, livelli tecnologicamente rilevanti, ma questa qualità non può essere tradotta in una scala di produzione neppure lontanamente avvicinabile a quanto saranno in grado di fare paesi nemici. Questo a prescindere da ogni discorso relativo alle infelici scelte strategiche adottate nella conduzione della guerra parallela voluta da Mussolini in concorrenza alle iniziative delle forze armate tedesche. Questo significa che c’è una debolezza strutturale inscritta nel destino bellico dell’Italia fascista. Quando lo stereotipo della guerra breve e quello immediatamente successivo della guerra parallela, non a caso condotta contro paesi che si potevano presumere più deboli (la Jugoslavia, la Grecia, l’Africa settentrionale) si riveleranno poco più di speranze mal riposte, allora emergerà con evidenza non solo l’impossibilità dell’Italia a reggere il confronto con le economie e con le capacità di mobilitazioni di risorse delle altre potenze, ma anche la dipendenza per molti versi umiliante dall’ l’alleato tedesco. Il regime a partire dall’autunno 1942 si dovrà misurare con l’impatto devastante della superiorità aerea degli Alleati, e nello stesso torno di tempo con la superiorità sul terreno delle divisioni di Stalin. Allora la verità apparirà in tutta la sua brutale evidenza alle popolazioni civili colpite dai bombardamenti, e, in modo più pregnante, a coloro che stanno al centro del sistema che alimenta la guerra, ossia le centinaia di migliaia di operai, che fanno funzionare la macchina della produzione bellica.


E’ già stato notato che la sollecitazione che deriva all’apparato industriale dai provvedimenti assunti dal governo fascista per sostenere la guerra risulta complessivamente inferiore a quello che ci sarebbe potuti attendere da un regime che nel corso degli anni Trenta è venuto rinforzando i suoi tratti totalitari con un controllo crescente sulla società civile e con marcati processi di militarizzazione della società, soprattutto delle generazioni più giovani, che dovranno realizzare gli obiettivi di espansione dell’Italia. Lo sforzo iniziale è rilevante e produce una canalizzazione delle risorse, in primo luogo finanziarie, verso i settori più moderni, secondo una linea che era già stata impostata nel corso degli anni Trenta e che le imprese belliche del regime (Etiopia, Spagna) e l’autarchia avevano rinforzato. Guardando a cosa questo andamento significhi per l’occupazione operaia si possono registrare alcuni mutamenti significativi: la crescita degli occupati tra il 1939 e il 1942 e il loro rapido decremento già verso la fine del 1942; una concentrazione territoriale ancora più marcata che accresce il peso relativo del triangolo industriale; una concentrazione per settori con spostamenti significativi a vantaggio dei settori più moderni(siderurgico, meccanico, chimico); la crescita relativa delle aziende maggiori. In termini numerici gli operai di fabbrica sono circa 1 milione e ottocentomila in tutto il nord all’inizio della guerra, pari a due terzi dell’intero universo operaio nazionale; crescono rapidamente di almeno quattrocentomila addetti tra il 1940 e il 1942, ma nel 1943 sono ritornati sulle cifre iniziali. Gli operai delle grandi fabbriche possono essere valutati in circa 200 mila; costituiscono una frazione della massa operaia, ma molto concentrata nei grandi stabilimenti delle città del triangolo, Torino, Milano, Genova. Sotto il profilo della qualità professionale dentro questo insieme c’è un nucleo costituito da operai specializzati, risultato di una formazione di anni di lavoro, che sono il perno del sistema produttivo del tempo. I processi di standardizzazione che pure sono cresciuti, non possono però prescindere da questo strato operaio, che è però una risorsa limitata e non sostituibile. Per esemplificare che cosa questo dato significhi si può considerare la realtà della Fiat Mirafiori. Inaugurato nel 1939 il moderno stabilimento è stato adibito alla produzione bellica raccogliendo una serie di produzione prima sparse in varie officine. Lavorano a Mirafiori circa 14 mila operai la cui composizione è varia: accanto a operai comuni, a donne e giovani adibiti tutti a produzioni di serie stanno circa 2000 operai raccolti nelle officine ausiliarie, ossia quelle officine che forniscono gli strumenti e le attrezzature che consentono alle altre officine di funzionare. Si tratta di 2000 operai di alta qualificazione ottenuta in anni di apprendistato e di scuola. In tutte le aziende metalmeccaniche del tempo, a Milano come a Genova, questa presenza di specializzati è un dato costante, che corrisponde ad un determinato livello dell’evoluzione dell’organizzazione produttiva, che resterà inalterata in Italia fino alla metà degli anni Cinquanta. Questi nuclei operai, minoranze elitarie del mondo del lavoro del tempo di guerra, avranno un ruolo spesso decisivo negli sviluppi della contestazione operaia, perché sottoposti ad uno sforzo produttivo esasperato, finiranno per assumere consapevolezza del proprio ruolo e diverranno i più determinati sostenitori delle esigenze operaie. Il processo è relativamente lento perché, finchè la guerra è lontana, la domanda di forza lavoro perla produzione bellica fa crescere l’occupazione; il controllo dei prezzi e dei salari funziona abbastanza, così come l’organizzazione della distribuzione dei viveri, specialmente nelle città industriali. Ma all’inizio del terzo anno di guerra la situazione è destinata a mutare con molta rapidità per tre principali fattori: le sconfitte militari, di cui la campagna di Russia costituisce l’ultima disastrosa esperienza , l’avvicinarsi del fronte di guerra al territorio nazionale, l’esaurirsi delle risorse che il paese riesce a mettere in campo, a cominciare dal rapido abbassarsi delle quantità e della qualità delle razioni alimentari. Infine, fattore dirompente, i bombardamenti che dall’autunno 1942 incominciano a colpire con sistematicità le città italiane e in particolare le città industriali del nord. La guerra, che sembrava lontana, arriva sulle case e sulle fabbriche, diventa un’esperienza quotidiana.

L’effetto è sconvolgente: le coordinate dell’esistenza di milioni di persone vengono travolte, così come il tessuto connettivo delle città, i collegamenti interni e le vie di comunicazione. Le città si svuotano: lo sfollamento significa il dimezzamento della popolazione delle grandi città, dove però devono restare quanti concorrono alla produzione, tra questi ovviamente gli operai. Dunque gli operai dei maggiori centri industriali si ritrovano nel giro di poche settimane in prima linea e non più nelle forme metaforiche ampiamente utilizzate dal regime per sottolineare l’importanza dell’apporto operaio. Le fabbriche diventano delle trappole, i rifugi antiaerei si rivelano insufficienti, spesso inadeguati, i tempi di lavoro sono scanditi dall’urlo delle sirene che segnalano l’arrivo degli aerei. Dalla minaccia che arriva dal cielo, non è possibile difendersi, né il regime è in grado di attivare una difesa adeguata. Tutto l’apparato propagandistico gestito dal partito e dal sindacato per motivare gli operai a sostegno dello sforzo bellico si svuotano di fronte all’evidente incapacità-impossibilità del regime di difendere l’esercito del lavoro. Alle domande di attenzione e di sostegno da parte degli operai non ci sono risposte né da parte dell’apparato politico, che oppone alle domande degli operai la necessità di sostenere comunque lo sforzo di guerra, perché non può riconoscere in alcun modo che la partita è persa. Né può riconoscerlo l’apparato sindacale, che pure nelle strutture più vicine agli operai ha avvertito e raccolto l’allarme e la domanda di tutela dei lavoratori, delle fabbriche militarizzate, ossia la maggior parte delle fabbriche importanti. Tale domanda non può essere esplicitata perché suonerebbe come un attacco al regime e alla guerra fascista. Questo punto è importante perché fa sì che mentre non ci sono risposte in positivo, ogni atto non riconducibile alle logiche comunicative e di controllo del regime, è un atto politico ostile: perché è insubordinazione al potere costituito, perché è tradimento del paese in guerra nel momento in cui l’unità del fronte esterno e interno è l’assioma che garantisce l’unità e la lealtà delle forze armate e dell’esercito della produzione, l’esercito delle fabbriche. Si può solo osservare che questa impostazione inevitabilmente riporterà sotto la categoria di comportamento antinazionale e quindi antifascista qualunque atto e comportamento che non sia di accettazione del ruolo assegnato dal regime.

La guerra entra di prepotenza nei discorsi operai e finisce per costituire il punto attraverso cui si valutano le coordinate della propria esistenza; si valuta l’abbassamento repentino della qualità di una condizione fino a pochi mesi prima relativamente protetta, ma anche e soprattutto la minaccia diretta all’esistenza di ognuno. Si tratta di un passaggio che taglia le esistenze di centinaia di migliaia di persone e che da questo punto in poi sta sullo sfondo di ogni scelta e comportamento collettivo, un passaggio da cui non si può prescindere nella valutazione del protagonismo operaio espresso dagli scioperi. Gli operai sono contro la guerra perché la guerra è contro di loro.



Gli scioperi


La situazione descritta fa da sfondo alle iniziative di protesta operaie, che in forma sporadica si manifestano nei primi mesi del 1943, e che ai primi di marzo si coagulano in una protesta generale coinvolgendo molte fabbriche prima di Torino, poi Milano e di varie aree di vecchia industrializzazione, soprattutto piemontesi e lombarde. E’ il primo di una sequenza di scioperi dei lavoratori dell’industria, delle fabbriche del centro nord. La sequenza può essere così sintetizzata: marzo 1943, luglio agosto 1943, novembre dicembre 1943, marzo 1944, aprile 1945. Le date indicano le punte alte delle agitazioni, quando il movimento assume una dimensione generale e quindi un significato politico. In tutti i punti della sequenza si producono effetti così ampi da costituire un problema di rilevanza nazionale qualunque sia la forma del potere con cui gli scioperanti si misurano: il regime fascista alle sue ultime battute, il governo tecnico militare di Badoglio, voluto dal re dopo la caduta del fascismo tra il 25 luglio 1943, e dopo l’8 settembre il potere degli occupanti tedeschi e, in forma subordinata, il governo collaborazionista della Repubblica sociale italiana.

La sequenza sembra suggerire una tendenza lineare alla crescita dei movimenti di sciopero che di passaggio in passaggio accrescono la loro capacità di “tenere il campo”. In realtà non è così, non solo perché mutano significativamente i contesti in cui avvengono le agitazioni operaie, ma anche perché all’interno delle singole manifestazioni di sciopero si danno condizioni diverse, a cominciare dal diverso esito che in esse hanno gli elementi di spontaneità e di organizzazione della protesta operaia.

Il punto di riferimento inevitabile è lo sciopero del marzo 1943. Per le modalità con cui si manifesta la protesta operaia è difficile da decifrare perché le interruzioni del lavoro procedono per inneschi improvvisi, con coinvolgimenti e partecipazioni di fabbriche e settori che il velo organizzativo dei militanti antifascisti non è in grado di gestire, ma che è in grado di assecondare. Per valutarne l’impatto va ricordato che lo sciopero, l’interruzione del lavoro è qualcosa che è stato espunto dalla dimensione politica del regime, un evento che non dovrebbe accadere e che nel momento in cui accade va a colpire uno dei presupposti costitutivi del regime fascista: la collaborazione tra le classi garantita dal sistema politico autoritario, per definizione esclude il conflitto sociale, che in ogni momento potrebbe scardinare il principio di autorità e gerarchia che definisce il regime. Di qui le ire di Mussolini per le insufficienze dell’intervento politico e sindacale, le incertezze nella repressione, ma anche le incertezze dei sindacalisti che non possono negare le ragioni della protesta operaia. Non a caso alla repressione dei primi giorni faranno seguito nel mese di aprile alcune indennità a vantaggio di tutti gli operai. E’ una modalità che tende da un lato a punire e dall’altro a recuperare il consenso. Ma dal punto di vista degli operai è anche una modalità che riconosce che lo sciopero paga e produce vantaggi per tutti. Qualche tempo dopo Mussolini minimizzerà l’impatto dello sciopero, perché gli effetti sembrano riassorbiti. In realtà è a parabola del regime che si sta concludendo: gli scioperi di marzo hanno semplicemente anticipato degli scenari nuovi, evidenziando la crisi irreversibile del regime.

Se ora facciamo un salto temporale e guardiamo allo sciopero “finale” dell’aprile 1945, a due anni di distanza, possiamo misurare la distanza tra i due eventi. La proclamazione degli obiettivi insurrezionali dello sciopero, il coinvolgimento programmato degli operai ma anche di altri soggetti sociali, la presenza organizzativa dei partiti antifascisti e delle strutture sindacali e paramilitari, perfino le armi in mano agli operai e il coordinamento ricercato e voluto con le formazioni partigiane, fanno dello sciopero un progetto politico dispiegato, consapevole degli obiettivi che si intendono conseguire. La natura “eversiva” dello sciopero, implicita nei comportamenti degli operai nel marzo 1943, è ora non solo dichiarata, ma anche controllata nei suoi esiti da una volontà politica che stabilisce le modalità dell’azione e anche i confini non superabili dell’azione contro tedeschi e fascisti.

Visto nell’insieme il percorso sembra procedere da una conflittualità inconsapevole ad una maturità politica che si fa programma e progetto. In realtà non è così semplice, perché il percorso è tutt’altro che lineare, e quindi vanno messe in conto incertezze e difficoltà che ci parlano di un processo faticoso, a volte contraddittorio, con assenze a volte vistose e viceversa con presenze inattese, soprattutto con significati che di volta in volta si ridefiniscono. E tuttavia è riconoscibile in tanto mutare di situazioni e contingenze un tratto di fondo, che dà unità al movimento complessivo: è la domanda di riconoscimento, che viene riproposta in forme mutevoli dalle agitazioni operaie a interlocutori, che resistono o si oppongono e che tuttavia sono costretti di volta in volta a fare i conti con la pressione operaia. Inoltre, ed è un secondo elemento di fondo, la dinamica degli scioperi si muove sempre tra due poli distinti: da un lato si pongono come fatti politici, come eventi interpretabili prevalentemente attraverso le categorie della politica e del conflitto di potere, e dall’altro si pongono come atti di difesa e tutela delle condizioni di vita e di lavoro, come atti interpretabili secondo le categorie della relazione sindacale e quindi dello scambio e della contrattazione. In realtà le due dimensioni si presentano sempre intrecciate e il significato dello sciopero non è tanto dato dalla preminenza delle parole d’ordine politiche su quelle sindacali, ma dal contesto in cui di manifesta la domanda operaia. Ed essendo il contesto caratterizzato dalla condizione bellica, dai vincoli e dalle rigidità che essa produce, inevitabilmente anche la rivendicazione salariale, o di viveri, o di difesa del posto di lavoro, non appena supera la soglia della rivendicazione locale, e innesta un processo a catena di rivendicazioni che esprimono un disagio generalizzato, assume una valenza politica al di là delle intenzioni iniziali di chi la pone.

Alla luce delle categorie ricordate, in prima approssimazione si potrebbe dire che gli scioperi che caratterizzano il 1943 sono segnati dalla dimensione rivendicativa, mentre lo sciopero generale del marzo 1944 e quello insurrezionale dell’aprile successivo sono segnati dalla cifra politica. Ma a parte quest’ultimo, la cui natura di scontro finale non lascia spazio ad altre letture, per tutti gli altri la distinzione non funziona.

Nel marzo 1943, quando si apre la vicenda, le richieste operaie riguardano la tutela delle condizioni di vita e dunque le richieste vengono poste alle direzioni aziendali in forme molto differenziate, mentre l’istanza politica è espressa da una domanda di pace che compare, e neppure in tutte le situazioni, in forma generica: un desiderio, un’attesa piuttosto che un obiettivo. Ma la dimensione politica dello sciopero è data dalla modalità con cui si manifesta, per l’estensione che assume, per la circolazione imprevedibile del movimento. E a consacrarne il carattere politico c’è il dato evidente per cui le risposte non vengono né dalle aziende, né dalla mediazione del sindacato fascista, ma dal governo che da un lato concede provvedimenti salariali connessi alla situazione di guerra (indennità di presenza) e dall’altro procede alla repressione di un nemico che per altro fa fatica a identificare. Non a caso vengono arrestati un certo numero di militanti antifascisti accanto ad un numero cospicuo di operai, uomini e donne, per i quali lo sciopero è stata la prima manifestazione di protesta. Si tratta dunque di una dimensione politica particolare, implicita, che se è raccolta e dilatata dalla stampa antifascista e in particolare da quella di orientamento comunista, non è però gestita da un’organizzazione, che quando compare attraverso la presenza di vecchi militanti è ad uno stadio aurorale. Questa dimensione particolare ha fatto molto discutere sugli elementi di spontaneità e organizzazione degli scioperi del marzo. Nella lettura più estrema spontaneità equivaleva ad autonomia, autonomia dai partiti antifascisti, e quindi come luogo di origine dei comportamenti conflittuali di classe che non si lasciano incorporare in visioni politiche fornite dall’esterno. Autonomia come nucleo strutturante di un operaismo tanto radicale quanto astratto che ha le sue fortune maggiori a partire dall’autunno caldo del 1969. Organizzazione era invece la parola che rivendicava ai partiti antifascisti, in particolare al partito comunista, un ruolo decisivo nella promozione e nello sviluppo degli scioperi. Due letture contrapposte che davano conto ciascuna solo di una parte della realtà che nel marzo 1943 non aveva, non poteva avere una declinazione politica netta e definita. Allora prevalse la cifra della sperimentazione, in cui il caso e l’iniziativa di gruppi o di singoli si mescolarono in forme inattese, come ad esempio, la scarsamente riconosciuta iniziativa di gruppi di donne attive, e in alcune situazioni decisive, fin dalle prime battute nello sciopero. Al carattere di sperimentazione si accompagna l’incertezza perché, come diranno molti testimoni, non si sapeva bene che cosa volesse dire fare sciopero, quali fossero le conseguenze di un atto illegittimo rispetto alle regole del regime, quali comportamenti fosse opportuno assumere di fronte alle direzioni aziendali e ai funzionari fascisti, politici o sindacali, che a loro volta si trovavano ad affrontare un’esperienza sconosciuta. Certamente l’esperienza produce nella fabbrica una discriminante tra chi sostiene o approva o semplicemente non ostacola la protesta degli operai e chi si pone contro. Anche questa è una discriminante piena di sorprese, di fascisti che decidono di stare con i compagni di lavoro, di industriali (non molti, ma ci sono) che difendono le scelte dei propri operai, di sindacalisti che scoprono di stare dalla parte sbagliata. Dunque l’evento sciopero produce le sue conseguenze inattese, distrugge in un colpo solo la costruzione corporativa fascista, produce scelte e lealtà che spesso dureranno una vita. Apre uno spazio di libertà in cui la storia si incanala abbandonando un percorso che fino a pochi momenti prima sembrava segnato da confini insuperabili. Il dato più rilevante, rispetto al quale il resto, tutto il resto passa in subordine, è la ricomparsa del conflitto sociale. E’ dunque veramente un inizio sia per i soggetti che ne sono coinvolti, sia come primo momento di un percorso complesso che alimenterà discorsi politici, identità sociali e comportamenti collettivi. Alimenterà anche il mito degli scioperi del marzo 1943, nell’accezione positiva che la parola può assumere, perché sta all’origine di una nuova fase della storia del movimento operaio italiano e della società italiana, perché così viene presentato dalla stampa clandestina e poi dagli storici militanti che ne riprenderanno il racconto nel dopoguerra.

Se il carattere di novità, di stato nascente degli scioperi del marzo 1943 ne fa un momento unico e irripetibile, anche negli scioperi successivi si manifestano importanti elementi di originalità. Nel corso dello stesso anno due altri momenti si impongono con forza e sono gli scioperi dell’agosto e del novembre dicembre. I primi trovano l’innesco nella protesta piena di rabbia contro i bombardamenti terroristici che colpiscono città,fabbriche e quartieri operai per costringere il re e Badoglio alla resa. La richiesta pressante di porre fine ad una guerra persa, che comporta prezzi insopportabili viene nell’agosto 1943 da alcune fabbriche torinesi. Un tentativo sanguinoso di repressione innesta una protesta generale molto dura. In questa occasione sono gli operai di Torino a interpretare la condizione che tocca milioni di Italiani, mettendo in difficoltà un governo autoritario, che non sa prendere l’unica decisione importante che ne giustifica e legittima l’esistenza: uscire dalla guerra. I partiti antifascisti, meglio quegli embrioni di partito tenuti sotto tutela da Badoglio perché non mettano in discussione appunto la questione della guerra e della pace, non hanno né la forza né gli strumenti per potere intervenire. E tuttavia l’iniziativa operaia costringe Badoglio a reprimere, ma anche a trattare e a concedere finalmente la liberazione dei prigionieri politici. L’armistizio arriverà con le modalità devastanti che conosciamo a pochi giorni di distanza. Può essere importante rilevare che nelle confuse giornate che seguono l’8 settembre, l’unica presenza significativa sotto il profilo sociale nelle piazze delle grandi città è quella degli operai, che richiedono, invano, un atteggiamento fermo alle autorità militari di fronte all’occupazione tedesca.

Nell’autunno, in regime di occupazione, a partire dalla metà di novembre, ci sarà il terzo momento delle lotte operaie. Di fronte agli operai di Torino, di Milano e di Genova che protestano per le pesanti condizioni di lavoro e di vita non ci sono le direzioni aziendali , che scaricano, non senza un calcolo di opportunità, la pressione operaia verso l’appena nata Repubblica di Salò e, soprattutto, verso i tedeschi. E’ un braccio di ferro duro e prolungato che porta i tedeschi a cercare la via dell’accordo attraverso concessioni significative in cambio della pace sociale e della regolarità della produzione. In questa occasione la rilevanza dello sciopero va cercata nella capacità di negoziare con una forza di occupazione che non è abituata a gesti di mediazione. Infatti i tedeschi, attraverso il loro rappresentante, il generale Zimmermann, accettano di trattare e alla fine anche di concedere molto, poiché intendono recuperare la normalità produttiva a sostegno della loro guerra. L’obiettivo principale è portare la gestione delle risorse dell’industria italiana nel quadro generale della guerra di Hitler, che come sappiamo sta producendo il massimo sforzo produttivo per cambiare gli esiti del conflitto. La modalità è lo scambio: concessioni salariali e di viveri contro pace sociale e regolarità produttiva. Ma la scelta nel novembre dicembre 1943 arriva tardi, quando da un lato la situazione di emergenza e di difficoltà generale è difficilmente recuperabile e richiederebbe ben altri impegni e risorse di quelle che i tedeschi vogliono o sono in grado di concedere; e dall’altro il processo di integrazione delle esigenze operaie e l’individuazione di interessi generali è andato troppo avanti.

Ritornando all’intera sequenza degli scioperi nel corso del 1943 dal punto di vista dei comportamenti operai possiamo rilevare, oltre alla dimensione politica di cui si è cercato di individuare il profilo innovativo, altri elementi che sono il portato di processi di mutamento dentro la realtà operaia. Intanto la disponibilità alla mobilitazione di quote rilevanti di operai soprattutto, ma non solo, nei grandi centri industriali, che spiega la rapidità con cui le iniziative di sciopero che hanno uno scarso tasso di organizzazione si estendono con modalità imprevedibili. La rapidità della mobilitazione insiste su alcune motivazioni di fondo comuni, che si evidenziano dopo l’occupazione tedesca e che hanno progressivamente unificato verso il basso, le condizioni di via e di lavoro degli operai: le differenze di qualifica e di salario sono assorbite dall’aumento dei prezzi dei beni, le condizioni generali di esistenza delle famiglie dei lavoratori si fanno pesanti per tutti: i viveri razionati non bastano più mentre i prezzi al mercato nero diventano inavvicinabili per i salari operai. Nelle fabbriche il deterioramento progressivo delle condizioni di vita si accompagna o con un accresciuto rischio di licenziamenti o con una intensificazione dei ritmi e allungamento degli orari di lavoro, a cui si aggiunge il dissesto generale dei trasporti, la necessità per molti di abbandonare ogni sera i centri soggetti ai bombardamenti, sottoponendosi a fatiche di trasferimenti in condizioni gravemente disagiate.

Un secondo elemento caratterizzante è dato dal fatto che in tutti e tre i momenti di conflitto aperto l’iniziativa operaia si scontra direttamente con l’autorità dello stato, fascista nel marzo, monarchico militare nell’estate, tedesco e fascista nella versione repubblicana nell’autunno. Gli strumenti di mediazione o non ci sono o non funzionano e dunque la partita si fa immediatamente politica. Il dato interessante è che in tutte e tre le situazioni gli operai non escono sconfitti, ma in qualche modo il potere deve cedere perché non ha soluzioni diverse, anche se la via della repressione verrà perseguita. In marzo con numerosi arresti, nell’agosto con interventi dell’esercito di fronte ad alcune fabbriche, con atti di repressione ancora sporadici nell’autunno, ma che porteranno all’uccisione di due operai a Genova e altrettanti nel Biellese, segno di una tendenza alla radicalizzazione dello scontro, che nei mesi successivi crescerà con le prime deportazioni operaie nel gennaio febbraio 1944 da Genova e da Torino.

Dunque per il 1943 la politicizzazione del conflitto non sta nelle parole d’ordine degli scioperi, ma nel fatto che gli scioperi costituiscono una sfida, un atto di volontà che il potere, nelle tre varianti ricordate, contrasta, perché li sente come atti di insubordinazione. E’ la natura del contesto in cui maturano gli scioperi che fa loro assumere la valenza di atti politici, ma c’è un dato generale che li accomuna: è la dimensione della guerra( la guerra di Mussolini, la guerra di Badoglio, la guerra di Hitler) che li rende eversivi perché potenzialmente rappresentano la dissociazione di una componente sociale necessaria alla guerra dalle priorità strategiche di chi detiene il potere. Questo dato ci dice che dentro i comportamenti operai sono avvenuti dei mutamenti che vanno nella direzione della crescita della solidarietà tra le componenti del mondo operaio. Sono le stesse richieste operaie a confermare questo dato perché puntano su aumenti uguali per tutti, quando non sulla distribuzione diretta di viveri per aggirare l’effetto dell’inflazione che taglia la capacità d’acquisto dei salari. E le risposte che vengono date finiscono per riconoscere questa condizione comune. Ma il riconoscimento per gli operai comporta di volta in volta la crescita della consapevolezza del proprio ruolo e quindi anche la possibilità di giocarlo con più forza. D’altra parte nella sequenza degli scioperi è identificabile una capacità crescente di gestire lo spazio di contrattazione: le incertezze del marzo 1943 nell’autunno diventano capacità notevoli di gestire il conflitto e di portarlo a esiti che nelle condizioni date sono rilevanti, fino al risvolto inedito dell’autorità tedesca che tratta con gli operai , perché sarebbe controproducente procedere con la forza in un paese che si cerca di presentare recuperato con Mussolini alla causa della guerra contro gli anglo americani. La conclusione positiva degli scioperi è certamente il risultato di una congiuntura eccezionale per cui sia la RSI, sia i tedeschi per ragioni diverse sono alla ricerca di un rapporto positivo con gli operai: i secondi per portarli a produrre per il Reich, la prima per recuperare sostegni aduna scelta radicale che ha tagliato i ponti con le vecchie alleanze sociali. Ciò non toglie che l’impressione di fronte all’estensione, alla durata e alla determinazione degli scioperanti sia grande. In particolare per i partiti antifascisti è la scoperta di uno spazio di opposizione dalle potenzialità enormi. Qualche cosa di diverso e lontano dell’antifascismo motivato da opzioni politiche consapevoli o da scelte di vita radicali come la scelta armata, che non possono essere che di minoranze, ma un antifascismo diffuso, che ha una base sociale estesa e identificabile, connesso alle condizioni di vita e di lavoro, ma anche motivato da una spinta di ribellione nei confronti di ciò che rende l’esistenza insopportabile: una condizione che, come facile prevedere, peggiorerà.

E’ un antifascismo che sorprende le componenti politiche clandestine, che hanno qualche presenza nelle fabbriche: i comunisti certamente, ma anche gruppi di azionisti e socialisti. Tutti devono ammettere di non avere né previsto, né guidato il movimento di sciopero, ma nei casi migliori di averlo al massimo assecondato a posteriori, senza poter svolgere un ruolo guida. Di più, nella riflessione dei quadri comunisti più consapevoli viene messa in discussione la strategia del partito che dopo l’8 settembre ha orientato la quasi totalità degli sforzi organizzativi per la costituzione delle bande partigiane, senza avvertire la disponibilità alla mobilitazione di un fronte di opposizione dentro il cuore delle città, dove più forte era lapresenza di tedeschi e fascisti. Per i comunisti diventa un punto d’onore il recupero di un rapporto pieno con gli operai, che sono o dovrebbero essere il referente sociale di ogni elaborazione politica e ideologica. Lo faranno proponendosi come promotori ed organizzatori dello sciopero generale del marzo 1944.


Dal marzo 1944 all’insurrezione


Nel lungo ciclo delle lotte operaie, lo sciopero del marzo 1944 è stato definito il primo sciopero politico, nel senso che questa caratterizzazione non è data solo dal contesto in cui esso avviene, ma è un atto di scelta e di volontà, che comporta la definizione di un programma, la preparazione, la conduzione dell’azione e, infine, la conclusione e insieme la gestione del significato dell’azione condotta. E’ uno sciopero politico perchè come tale lo percepiscono tutte le componenti, sia antifasciste (i partiti antifascisti, anche con gradi diversi di coinvolgimento e l’organo politico della resistenza, il CLN), sia fascisti e tedeschi, che giocano tutte le carte disponibili per impedirne l’attuazione o per attenuarne l’impatto, dalle ferie anticipate in molte fabbriche alle minacce di repressione dura, all’attuazione di tali minacce con arresti e deportazioni. E’ infine uno sciopero politico perché prevede per la prima volta degli interventi armati a sostegno dell’azione operaia, non solo dei gap, già attivi nelle maggiori città, ma di forze esterne, prefigurando, sia pure con modalità sperimentali, il modello di una possibile strategia insurrezionale che deve muovere insieme le forze interne alle città e le forze esterne. Nel marzo 1944 il modello è appena abbozzato; gli interventi esterni risulteranno limitati. Ciò non toglie che la possibilità metta in grande allarme tedeschi e fascisti. Così, ad esempio, a Torino al termine del secondo giorno di sciopero, spaventati dall’attivismo partigiano nelle valli attorno alla città, i tedeschi stanno per attivare un piano di repressione su larga scala, piano che rientrerà per l’attenuarsi della tensione. Comunque lo sciopero è un successo per le forze antifasciste, malgrado la propaganda fascista ne sottolinei il sostanziale fallimento. Che lo sciopero annunciato porti al blocco simultaneo dell’attività di centinaia di fabbriche in tutto il nord e anche al centro è un risultato, che anche la stampa internazionale non mancherà di rilevare come un segno della crisi del potere di fascisti e tedeschi. L’assenza di alcune aree( le più significative saranno Genova e il Biellese, per la pesante repressione subita nel mese precedente) è ampiamente compensata dalla estensione dello sciopero a località e fabbriche non coinvolte in precedenza; nè le incertezze riscontrabili in più situazioni e i limiti evidenti dell’intervento delle formazioni partigiane non mettono in discussione il risultato. Giustamente la stampa clandestina, comunista socialista, azionista, sottolineano ed esaltano la valenza antifascista generale dello sciopero, ma forse i segnali più interessanti dal punto di vista delle reazioni interne vengono da alcuni industriali, che nella prova dello sciopero colgono l’anticipazione di un esito ormai possibile della fase dell’occupazione e del braccio di ferro interno tra fascismo e antifascismo.

Senza entrare in un’analisi dello sciopero e degli aspetti anche critici rilevati nelle giornate immediatamente successive, è opportuno riprenderne alcuni aspetti sia generali che specifici che produrranno sviluppi importanti. Su un piano generale va rilevato che lo sciopero di marzo si pone come uno spartiacque nell’evoluzione del movimento di resistenza e nella strategia di contenimento e repressione condotta da tedeschi e fascisti. L’azione di repressione condotta nelle fabbriche brucia ogni residua possibilità di rapporto con la RSI, definisce i limiti della disponibilità tedesca alla trattativa, mette in imbarazzo le direzioni aziendali nelle cui fabbriche avvengono atti repressivi. Per converso produce una spinta alla crescita della solidarietà tra gli operai, apre spazi all’iniziativa dei partiti antifascisti, accresce le attese nei confronti della lotta armata partigiana. Che il passaggio abbia una valenza di ordine generale è fuori di dubbio. I timori di una saldatura tra movimento antifascista nelle fabbriche e movimento partigiano esterno per la prima volta concretatisi nelle iniziative per quanto limitate verificatesi nel corso dello sciopero, portano alla definizione di una strategia repressiva guidata dai tedeschi, ma che coinvolge le forze della RSI in una catena di rastrellamenti e di violenze su partigiani e civili senza fine.

La radicalizzazione dello scontro è percepibile in ogni contesto dell’Italia occupata ed è un fattore da tenere in conto perché scava un fossato sempre più ampio tra popolazione, forze occupanti e fascisti della RSI, mentre il fronte della guerra si rimette in movimento e nelle le file partigiane entrano quote delle leve giovani chiamate alle armi dalla RSI. Siamo di fronte ad una passaggio di fase su più piani che ridefinisce i contorni complessivi dell’esercizio del potere nei territori controllati da tedeschi e fascisti.

Interessante è anche lo sviluppo della elaborazione interna al movimento antifascista. I risultati dello sciopero producono due elementi apparentemente contraddittori: da un lato la crescita di attenzione da parte di tutte le forze antifasciste nei confronti della fabbrica: si genera una concorrenza positiva nella ricerca del consenso operaio alle varie opzioni di partito. Lo sciopero ha fatto scoprire o riscoprire la fabbrica come il luogo della politica anche a componenti antifasciste fino a quel punto marginali o comunque poco attive; si è capito che in esse si gioca un’importante partita che influenzerà sia l’uscita dalla guerra sia le scelte del dopoguerra. Nello stesso tempo, lo sciopero ha anche detto che sarà difficile se non impossibile ritentare una prova generale come quella appena condotta se non come parte di un atto conclusivo, l’insurrezione, che andrà preparata in ogni suo aspetto. E’ già stato osservato che tra lo sciopero del marzo e lo sciopero insurrezionale dell’aprile 1945 non ci sarà più una prova di pari estensione; il che non vuol dire che non ci siano più agitazioni, scioperi; anzi, a partire dall’estate ci sarà una catena ininterrotta di iniziative, ma in forma frammentata, non più coordinata da un progetto generale. Nei punti in cui si tenta la generalizzazione sul piano cittadino e provinciale, come avviene a Milano nell’autunno, l’esito è deludente. Sembra di essere tornati indietro, ai momenti in cui prevaleva la protesta spontanea su quella organizzata. In realtà non è così e la verifica puntuale delle situazioni delle fabbriche ci dice che rispetto all’anno precedente ora le agitazioni hanno un elevato tasso di organizzazione, ma un basso tasso di coordinamento generale perché, di fronte ai radicali mutamenti nella produzione di guerra, alla posizione sicuramente meno rilevante della forza operaia in un contesto di declino produttivo, diventa più importante, difendere l’occupazione, il salario, le condizioni di vita sempre più dure situazione per situazione, fabbrica per fabbrica piuttosto che tentare un confronto a tutto campo. Il calo dell’attività produttiva si fa marcato dalla fine dell’estate 1944, quando appare possibile una rapida avanzata alleata fino alla pianura padana. I tedeschi diminuiscono il flusso delle materie prime a aumentano la pressione per trasferire uomini e macchinari, beni e materiali in Germania.

. In questa situazione difficile e confusa gli operai non sono più soli: non solo perché la spinta partigiana è cresciuta nel corso dell’estate, ma perché altri soggetti sono entrati nel confronto politico e sociale: i contadini, braccianti e mezzadri, e, sia pure in forme non clamorose, una quota di industriali, di quadri alti dell’economia interessati a difendere la propria forza lavoro e le imprese così come ad acquisire benemerenze antifasciste da spendere in un’Italia che sarà liberata in tempi ormai non troppo lontani.


L’antifascismo degli operai


Da parte delle autorità fasciste i comportamenti degli operai che protestano e scioperano, poiché non possono essere spiegati come atti che hanno alla loro origine la guerra e gli effetti che essa produce sull’esistenza degli operai e delle loro famiglie, verranno quasi sempre attribuiti alle manovre e all’attività disgregatrice dei nemici principali del fascismo, ossia i comunisti. Il complotto comunista diventa così, nell’immaginario fascista, la spiegazione, ma anche il luogo comune, lo stereotipo che impedisce di capire cosa sta succedendo nella società italiana. La semplificazione politica per cui l’operaio che sciopera o è un comunista o è un ingenuo irretito dalla cospirazione comunista, in realtà è il risultato di una diffidenza mai superata da parte del regime nei confronti degli operai, la componente sociale con più fatica ricondotta sotto il controllo politico del regime. Ne deriva una dilatazione non voluta, ma non per questo meno efficace, del ruolo che effettivamente ebbe la presenza dei comunisti negli scioperi del marzo 1943. L’impossibilità di riconoscere le ragioni della protesta come un atto di conflittualità sociale, non riconducibile sotto la categoria dell’eversione comunista, produce l’effetto di politicizzare tale conflittualità al di là delle intenzioni e dei progetti che sono riconoscibili nei gruppi operai attivi nella protesta. Chi scorra la comunicazione tra i responsabili del sindacato fascista nelle fabbriche e nelle strutture periferiche e il centro resta colpito dallo scarto tra la capacità di rilevazione della concreta realtà della condizione operaia, l’approfondimento analitico delle condizioni di lavoro, delle retribuzioni, delle qualifiche professionali e infine delle condizioni di vita compromesse dalla guerra, e l’incapacità di formulare una qualunque proposta di soluzione. Ai sindacalisti di base non resta che appiattirsi sulle scelte di partito, anche quelle più duramente repressive, o uscire dal ruolo passivizzandosi o addirittura sostenendo le richieste operaie, scelta tutt’altro che infrequente, come ci dicono le cronache del marzo 1943.

A confondere le valutazioni di parte fascista sulla presenza comunista nelle fabbriche sta infine un fattore rilevante, ossia la crescita tra gli operai del mito dell’Unione sovietica e di Stalin. L’uno e l’altro alimentati dai successi ottenuti dall’Armata rossa sul fronte orientale, dalla vittoria di Stalingrado in poi, all’avanzata che pare inarrestabile verso il cuore del Reich. In realtà la gran parte degli operai sa poco o nulla dell’Unione sovietica se non filtrato dalla propaganda fascista. La simpatia per i sovietici non è di tipo ideologico se non nelle minoranze esigue politicizzate; è piuttosto il fascino di una realtà, che sembrava condannata e che si rivela in grado di mettere in difficoltà la potente macchina da guerra tedesca. Ma se la spiegazione del complotto comunista non spiega granchè dei comportamenti operai e se i riferimenti a Mosca non sono nei discorsi operai il risultato di indottrinamenti ideologici, allora che cosa mette gli operai contro il fascismo? Esiste un antifascismo operaio e che cos’è? A queste domande è stata data una risposta che identifica nell’antifascismo esistenziale l’opposizione al fascismo come esito del divaricare degli interessi del regime da quelli della classe operaia. E’ una risposta certamente importante perché da un certo punto in poi individua nel fascismo l’origine delle difficoltà, e nella guerra la condizione, da cui è necessario uscire. E’tuttavia un antifascismo diffuso, condiviso da ampie categorie e settori di popolazione e non solo dagli operai, anche se questi ultimi sono quasi i soli per un lungo tratto a tradurre in atteggiamenti e scelte attive questi sentimenti. E tuttavia nei comportamenti operai si riscontrano degli ulteriori elementi che concorrono a rendere più complesso il concetto di antifascismo. Intanto c’è un elemento di ordine generale che si attiva quando gli operai si trovano a dover rispondere a comportamenti impositivi da parte di tedeschi e fascisti e poi da comportamenti repressivi sempre più pesanti. E’ quanto avviene all’interno dell’esperienza degli scioperi che spesso vedranno fronteggiarsi fascisti e operai. Questo trovarsi faccia a faccia con i fascisti di Salò che da una parte invocano la collaborazione, ma dall’altra minacciano, reprimono, arrestano, deportano, importa poco se per conto proprio o come più spesso avviene per conto dei tedeschi, produce inevitabili reazioni di rifiuto e di conflitto. Questa violenza programmata e deliberata alimenta un antifascismo che scopre nei comportamenti fascisti quell’ostilità di classe che era nel dna del fascismo delle origini, che nel ventennio era rimasta coperta e orientata contro l’opposizione politica al fascismo, ma che la situazione esasperata ed esasperante della guerra riporta a galla. I costi di questo antifascismo sono elevati : forse non si considera adeguatamente il fatto che delle migliaia di deportati politici e razziali, soprattutto nel corso del 1944, la quota assolutamente più alta è costituita da operai. Una parte, più fortunata, finirà nei campi di lavoro e nelle fabbriche tedesche, ma molti conosceranno il campo di sterminio e di questi molti non torneranno. Questo antifascismo ha una valenza universale perché accomuna i perseguitati operai ai deportati politici e razziali.

Ma c’è da considerare anche un’altra componente su cui forse non si è riflettuto adeguatamente ed è data dal fatto che le difficoltà della guerra e poi le tensioni generate dalle iniziative di autodifesa producono una crescita della percezione della fabbrica come comunità, come luogo in cui si attivano forme diffuse di solidarietà. La fabbrica di per sé è una struttura funzionale finalizzata agli obiettivi della produzione, ma se fattori esterni allentano il controllo che è necessario per garantire il funzionamento dell’organizzazione produttiva, emergono allora comportamenti e forme relazionali non finalizzate all’obiettivo funzionale, ma piuttosto orientate alla difesa e alla protezione degli appartenenti alla comunità di lavoro. E’ quanto avviene in molte fabbriche e particolarmente a partire dalla seconda metà del 1944 quando gli obiettivi produttivi, già ridotti, non possono più essere perseguiti perché mancano le materie prime da lavorare. Nelle testimonianze operaie emerge questa dimensione della solidarietà tra i compagni di lavoro orientata a perseguire un obiettivo: salvaguardare, anche con il coinvolgimento delle direzioni aziendali, le possibilità di sopravvivenza delle maestranze. Ne derivano comportamenti e modalità di rapporto dentro la fabbrica che in qualche modo definiscono un’identità di fabbrica differenziata da situazione a situazione e spesso fortemente connessa con il contesto che sta attorno alla fabbrica. Ne deriva anche uno spazio di intervento dei partiti antifascisti, che costruiscono, è il caso dei comunisti, forti relazioni dentro la fabbrica nella misura in cui si rivelano capaci di interpretare le esigenze della comunità operaia e di offrire soluzioni alternando momenti di conflitto a momenti di mediazione e di contrattazione con le direzioni aziendali. Il linguaggio radicale e classista che spesso si ritrova nella stampa clandestina dell’epoca, nasconde in realtà un ampio spazio di mediazioni complesse e articolate, anche su questioni che possono apparire marginali (distribuzioni di viveri, di materiali di consumo, dai vestiti al sapone alle gomme delle biciclette), ma che nelle condizioni date sono preziose e consentono di tirare avanti. E’ in questa difficile situazione che caratterizza le fabbriche del nord nella fase finale della guerra che si genera il terreno di coltura in cui si salda il rapporto tra partito comunista e classe operaia (per esprimersi con una sintesi stereotipata) o il rapporto tra una componente operaia che si politicizza facendo propri obiettivi e progetti del partito comunista e la massa operaia che le fornisce un consenso crescente(per usare una descrizione più complessa, ma più vicina ai processi reali che portano alla nascita del partito di massa).


Il partito e la questione nazionale


Come è noto il partito comunista inizia la sua esperienza nella guerra come un organismo minoritario di poche migliaia di militanti, di cui una parte piccola attiva e una parte più consistente in carcere, pesantemente provato da una lunga e sfortunata storia di opposizione attiva al fascismo e la conclude come un’organizzazione che si è trasformata in un partito di massa, con centinaia di migliaia di iscritti, migliaia di militanti e di quadri e soprattutto un solido insediamento nella società italiana, in particolare tra gli operai delle fabbriche, i braccianti e i mezzadri nelle campagne. Di qui l’immagine di una organizzazione che alla testa degli scioperi nelle fabbriche e a partire dalla primavera 1944, delle lotte dei braccianti e mezzadri nelle campagne del nord e del centro oltre che componente forte della lotta partigiana raccoglie i frutti di questa eccezionale battaglia politica. L’eccezionalità della battaglia produce l’eccezionalità del risultato. In realtà questa immagine è appunto un’immagine che non dà conto né della complessità del percorso durante il ventennio e delle contraddizioni che l’hanno segnato, né della complessità del percorso negli ultimi anni della guerra, né del processo straordinario che realizza la trasformazione del partito. Sulle difficoltà del rapporto con gli operai si è già detto qualcosa nella valutazione degli scioperi e di come esso sia stato almeno fino al marzo 1944 assai problematico. Tanto che il salto al partito di massa risulta a prima vista quasi inspiegabile.

Da questo punto di vista si può ragionevolmente sostenere che per un lungo tratto, grosso modo dagli scioperi del marzo 1943 fino alla preparazione dello sciopero generale del marzo successivo, quindi per un anno, il partito non è in grado di strutturare una presenza nelle fabbriche che lo renda promotore e avanguardia delle iniziative di sciopero e di gestirne i risultati. Nelle fabbriche i militanti sono pochi ed esposti alla repressione, come avviene pesantemente negli scioperi di marzo 1943. Grazie alla liberazione dei militanti comunisti da parte del governo Badoglio alla fine di agosto 1943, il partito può improvvisamente fruire della risorsa preziosa di dirigenti e di militanti di verificata esperienza. Nessuna altra componente antifascista può disporre di una riserva di energie comparabile. Tuttavia l’innesto di questa risorsa nel partito non è senza problemi sia per la situazione di emergenza che si crea con l’8 settembre, sia per le incertezze di linea politica che ne derivano: nella scelta della lotta armata, delle alleanze necessarie per condurla, degli obiettivi da perseguire in una situazione complessiva difficile. Significativi sono i contrasti anche dentro le fabbriche tra una scelta di partito che sostiene la necessità di ricostituire le commissioni interne e l’atteggiamento di prudenza sia dei militanti, sia degli operai che non vogliono esporsi in una situazione che presenta incognite drammatiche, in primo luogo per quanto riguarda la conclusione della guerra. Il governo Badoglio accetta di rilasciare i politici, ma non gli operai arrestati durante gli scioperi del marzo, perché il reato di cui sono accusati è di attività antinazionale, in altre parole di tradimento. Nè va dimenticato che i quadri rilasciati devono prendere confidenza con le situazioni in cui sono inseriti, nelle quali il lavoro organizzativo è da riprendere dalle basi, spesso andando a sostituire compagni che per imperizia o debolezza non hanno dato grandi prove di sé nella fase precedente. Infine, va anche detto che fino agli scioperi che scoppiano a Torino, Milano, Genova tra novembre e dicembre il fronte della fabbrica è considerato secondario rispetto a quello della lotta armata, perché l’occupazione tedesca rendeva molto improbabili conflitti sociali significativi dentro le grandi città del nord. Gli scioperi di novembre e dicembre costituiscono una smentita clamorosa di una tale impostazione per cui il gruppo dirigente clandestino, che a Milano coordina l’attività di partito, avvia un mutamento di rotta che lo porterà a mettere in discussione il profilo del partito come partito di quadri, di pochi militanti selezionati, uno strumento efficace forse per sopravvivere alle durezze della lotta clandestina, ma inefficace nel governare processi di massa, che richiedono una strumentazione organizzativa complessa e diversificata. Nella situazione di cui stiamo parlando non si tratta di riflessioni teoriche, ma di conclusioni a cui il gruppo dirigente di Milano arriva sull’onda di un’esperienza amara a cui cerca di mettere riparo innovando metodi e forme dell’attività di partito, in primo luogo promuovendo da subito un rapporto con quegli operai che si sono rivelati naturali guide nelle agitazioni degli operai. Non più la preparazione politica ideologica e la verifica dell’orientamento dei militanti da iscrivere nel rispetto del canone marxista leninista: in primo piano viene la capacità di iniziativa e di mobilitazione. La politica prima dell’ideologia e dell’organizzazione. Si tratta di un salto teorico e pratico che rovescia la concezione del partito quale si era definito nel primo dopoguerra. Può essere interessante rilevare che questa riflessione sul partito avvenga quasi contestualmente all’elaborazione che porterà Togliatti a quel passaggio decisivo nella vita del partito costituito dalla svolta di Salerno. Senza riprendere una discussione che ha avuto in sede storiografica uno sviluppo adeguato, qui ci importa registrare come per una strada completamente diversa da quella seguita dal segretario del partito comunista italiano, si determini l’esigenza di un mutamento organizzativo e politico, della strategia del partito. Nelle fabbriche del nord, i militanti comunisti e dirigenti del partito clandestino, che si erano posto il problema di recuperare un rapporto attivo con le masse operaie, sono in qualche modo costretti ad anticipare alcuni elementi sostanziali della svolta di Salerno, da un lato aprendosi ad un rapporto con quanti sono disponibili a battersi subito contro tedeschi e fascisti, dall’altro strutturando nella fabbrica e nei contesti di socializzazione operaia forme organizzative in grado di coinvolgere la massa operaia. L’aver sottovalutato il potenziale di contestazione rivelato dagli scioperi costituisce un errore politico gravissimo per chi ama definirsi come avanguardia del proletariato: di qui il ripensamento dell’intero percorso compiuto e la definizione della necessità di canalizzare il malcontento espresso dagli scioperi. Il problema è come riversare il potenziale di contestazione degli operai contro il regime di occupazione, fino alla scelta estrema dell’insurrezione armata. Il dato interessante è che questa riflessione viene prima delle indicazioni di Togliatti e matura tra la fine degli scioperi del dicembre 1943 e la proclamazione dello sciopero generale del marzo 1944, in polemica esplicita con le scelte che la direzione romana del partito sta compiendo nello stesso torno di tempo.

Quando arriva l’autorevole indicazione di Togliatti a costruire il partito nuovo, nelle fabbriche del nord il processo è già avviato attraverso due strumenti principali, la costituzione dei comitati di agitazione e l’articolazione periferica dei cln. I comitati di agitazione sono lo strumento che raccoglie un numero rilevante di operai, per lo più giovani non bruciati da militanze politiche precedenti, che in tutte le fabbriche nelle prove degli scioperi del 1943 sono emersi come i leader naturali nel sostenere le rivendicazioni, nella contrattazione con le aziende e con i tedeschi, senza lasciarsi inquadrare, come vorrebbero i fascisti, in forme di rappresentanza stabili. I comitati di agitazione sono strutture aperte in cui si entra sulla base della credibilità acquisita nei confronti della base operaia senza vincoli politici; non sono organi sindacali, ma agiscono per tutelare gli interessi operai, non sono organi politici, ma nelle condizioni date portano dentro di sé una carica di contestazione agli assetti di potere costituiti, di fatto una carica antifascista e antitedesca. I quadri migliori, così selezionati, vengono invitati ad assumere responsabilità politiche nelle strutture di partito che si vogliono rinnovare. Il travaso di energie funziona, non senza i mugugni di una parte dei vecchi militanti che diffidano dell’inesperienza dei nuovi arrivati, ma che non possono fare a meno di riconoscere la spinta propulsiva indotta dai “nuovi”, che è esattamente quanto la direzione del partito si aspettava. Il dato importante di questi passaggi, che si concentrano in tempi relativamente brevi, è che sono i movimenti operai, le logiche interne alla fabbrica a dare forma nuova alle strutture politiche, a condizionarne l’impostazione e la crescita. Si tratta di un punto di straordinario rilievo perché nella relazione classe partito, per dirla con una formula sintetica oggi in disuso, è il primo elemento, la classe, che conta di più. Per altro questa torsione è verificabile anche in altre esperienze di costruzione o di rifondazione di quei partiti, che hanno riferimenti nel mondo delle fabbriche. Così avviene per il partito socialista, costretto sotto la pressione della concorrenza dei cugini comunisti, a ripensare almeno in alcune sue componenti il suo rapporto con il mondo operaio; un analogo processo tocca anche il partito d’azione, che non a caso nelle realtà in chi è più vicino alla esperienza di fabbrica, subisce una torsione, che come avviene con più evidenza nella esperienza torinese, ne marcherà gli sviluppi successivi.




Il partito nuovo


Nei mesi che vanno dalla fine dell’estate 1944 alla liberazione prende forma il partito di massa. La costruzione del partito assume nel contesto della fabbrica un carattere che ne marcherà a lungo l’identità e ne condizionerà la capacità di presa sulla società italiana. Gli elementi che stabiliscono una connessione operativa tra la parola d’ordine del partito nuovo e la sua realizzazione nelle fabbriche del nord, sono numerosi e in una sequenza tutt’altro che lineare. Vi concorrono la dimensione sindacale come la difesa delle esigenze elementari degli operai; le forme di protezione dalle minacce di deportazione fino alla strutturazione di strumenti di autodifesa, la neutralizzazione di nemici politici e l’attività di propaganda, la strutturazione di squadre armate e la connessione con le forze partigiane; la dimensione politica con la costruzione di strumenti di coinvolgimento di altri componenti sociali e politiche, stimolate da una spinta concorrenziale, non priva di frizioni, ma efficace nel promuovere l’attività di ogni componente.

Il tutto in una situazione di contesto che registra due fatti importanti: da un lato il passaggio di fase costituito dalla liberazione di Roma e dalle ripercussioni generali che fanno intravedere una conclusione della guerra non lontana e dunque la necessità di prepararsi al dopo; dall’altra, a rinforzo, la spinta derivante dall’estate partigiana che vede crescere rapidamente le proprie forze e aumentare la propria attività e pericolosità. L’approssimarsi della guerra alle regioni settentrionali muta le prospettive di sfruttamento della produzione industriale italiana da parte dei tedeschi e li spinge a smantellare alcuni impianti, a portare via beni e semilavorati, e anche la risorsa viva costituita dagli operai e particolarmente dagli operai specializzati da impiegare nelle fabbriche del Reich.

Così alle preoccupazioni di licenziamenti e trasferimenti si accompagnano la deportazione, in alcuni casi portata a termine (vedi il caso di Genova nel giugno 1944), in altri solo tentata, di migliaia di operai. Di qui la ricerca di strade di difesa attiva sia per impedire ulteriori attacchi, sia per difendere chi deve pur lavorare per vivere. E’ in questo nodo di problemi, di rischi, di pericoli che si attiva l’iniziativa di quanti non accettano di subire la situazione. E poiché i militanti comunisti si espongono in prima persona per dare voce alle difficoltà operaie, per contrastare i pericoli, per attivare la solidarietà di industriali interessati a salvaguardare i propri lavoratori, a suggerire forme di organizzazione che fanno perno sulla comune condizione che riduce ogni differenza nelle gerarchie di fabbrica, per tutto questo e per molto altro il riferimento ai comunisti diventa naturale per gran parte dei lavoratori. Ed è ciò che dà senso all’operare di molti, per i quali la scelta di partito diventa il naturale completamento di ciò che stanno già facendo. Ciò che si intende sottolineare è l’eccezionalità del contesto dentro cui matura la scelta politica di quella che sarà chiamata la “leva dell’insurrezione” e nello stesso tempo la capacità di stare vicino e dentro la condizione operaia in una situazione in cui l’orizzonte ultimo è la fine della guerra, e l’insurrezione la conclusione di una condizione di esistenza insostenibile, un atto finale di liberazione.

Ma sul piano del partito l’immissione nelle strutture sindacali e negli altri organismi presenti nella fabbrica di quote rilevanti di giovani produce l’inevitabile effetto di una polarizzazione tra le istanze di direzione del partito, che restano nelle mani dei dirigenti più provati e sperimentati sul piano politico e ideologico, e le istanze di base, (di partito, ma anche unitarie) in cui è dominante la presenza di quadri operai, il cui tratto principale è la capacità di interagire con la massa su questioni che riguardano la quotidianità e la capacità di agire malgrado e a volte contro le minacce di tedeschi e fascisti. L’antifascismo di questi giovani quadri si alimenta della condizione di classe, ma non ne è il portato esclusivo se non in situazioni, sempre più rare, in cui il padrone o il dirigente di fabbrica sposa la causa di un fascismo ormai destinato alla sconfitta. Ovviamente tra queste due polarità convivono sfumature diverse, come la presenza di quadri più maturi, più sensibili alle esigenze della base che al richiamo dell’ideologia, o viceversa quadri di base più rigidi nella salvaguardia dell’ identità di classe e delle formulazioni ideologiche dell’ortodossia di partito. Ma il punto è che sugli uni e sugli altri agisce la lezione dei fatti e dell’esperienza quotidiana, che stabilisce priorità e indica scelte in un rapporto continuo con la realtà e la condizione operaia. Questo elemento dà all’iniziativa dei comunisti un carattere di concretezza e di capacità operativa che anche i concorrenti politici in fabbrica sono costretti a riconoscere e in qualche modo a imitare o comunque a sostenere. Su un piano più generale questo elemento di fondo ci dice che la costruzione del partito di massa è un processo complesso in cui le direttive dall’alto certamente forniscono le coordinate generali, ma che vengono adattate da un continuo e progressivo allineamento alle esigenze operaie. Con alcune conseguenze di rilievo: la prima è che il carattere del partito nuovo è quello di un partito operaio, che si porta dentro un elemento di forte omogeneità, ma anche di forte caratterizzazione sociale e culturale. Le denunce sui caratteri operai eccessivamente marcati del partito in costruzione vengono da dirigenti di primo piano, anche da quelli più nettamente orientati da impostazioni ideologiche tutt’altro che interclassiste.

Il problema affiora esemplarmente nelle difficoltà a costruire all’interno delle fabbriche o nei quartieri operai gli strumenti politici che dovrebbero elaborare la politica dell’alleanza antifascista. La costruzione dei cln di fabbrica o di quartiere, in effetti, trova molte difficoltà; solo raramente questi organismi politici unitari riescono ad esprimere un’attività significativa. Il rifiuto o la scarsa disponibilità degli operai a entrare e a operare in questi organismi è stata letta come un segno della radicalizzazione in senso classista delle posizioni operaie. In parte è così, ma, forse, non è stato valutato adeguatamente un altro fattore e cioè che il mondo operaio nella realtà delle città industriali costituisce un qualcosa di separato, fisicamente nella struttura delle città dove i quartieri operai hanno confini ben delimitati, e ancora di più sul piano delle gerarchie sociali. E’ un dato culturale, che ha una storia non breve, certamente rinforzato dalle ribadite differenze gerarchiche del fascismo, ma esistente da prima, tanto da costituire un elemento identitario, che segna un’appartenenza. Il modo di vestire, di abitare, di parlare, in una parola di vivere ne fanno una componente separata dal resto della società, in qualche modo fiera della propria identità e poco disposta a confrontarsi con altri. La differenza non sta solo dentro i rapporti di produzione, ma esiste anche al di fuori di essi, e dunque va rilevata con strumenti culturali e non solo politico economici.


Il rapporto con la lotta armata


Il problema dell’insurrezione è il problema della definizione del rapporto tra iniziativa operaia e lotta armata. Per gli operai il rapporto con la lotta armata ha almeno due diverse configurazioni e diverse varianti: l’operaio che porta le armi nelle formazioni partigiane, oppure anche nella fabbrica nelle squadre di azione patriottica (le SAP); in questo secondo caso si tratta di minoranze per lo più selezionate da percorsi particolari; infine l’operaio che condivide la lotta armata e la sostiene non in forme dirette, ma fornendo supporto e sostegno a chi impugna le armi.

L’operaio che sceglie la strada della montagna, che fa il partigiano è un dato importante dell’esperienza resistenziale italiana. Intanto sotto il profilo numerico. Non è facile fare valutazioni precise, ma certamente la componente operaia è numericamente la più rilevante almeno per le aree partigiane contigue agli insediamenti industriali. Assumendo il territorio piemontese come riferimento per esemplificare, possiamo dire che la quota di coloro che a vario titolo si definiscono lavoratori dipendenti nell’industria e nel terziario o come artigiani, costituisce la componente nettamente maggioritaria delle forze partigiane. Di questa componente coloro che più precisamente si definiscono come operai e operai specializzati sono circa il 30 per cento del totale. Considerando che il profilo socio-economico del Piemonte di allora contava una presenza significativa di contadini, la presenza operaia delle formazioni partigiane e nelle organizzazioni paramilitari della resistenza piemontese è certamente quella più significativa. Il che rinforza le osservazioni fin qui condotte sulla rilevanza dell’antifascismo operaio, che produce il più alto numero di partigiani, che avrà il più alto numero di caduti e il più alto numero di deportati.

Anche nelle strutture paramilitari, ossia le organizzazioni che restano legate sia all’ambiente produttivo, la fabbrica, ( le SAP di fabbrica), sia al territorio la presenza operaia è dominante. In Piemonte sono quasi 19 mila coloro che scelgono questo tipo di militanza; di questi più di tre quarti militeranno nelle SAP che fanno riferimento alle formazioni garibaldine; di questi la gran parte proviene dalle fabbriche del capoluogo piemontese. Questo aspetto della resistenza che è stato poco studiato, in realtà ha un rilievo notevole intanto perché una parte minoritaria, ma significativa di militanti delle SAP svolse una vera ed efficace attività militare nell’autunno inverno 1944-45. La ragione sta nel fatto che in quella fase della resistenza un numero non piccolo di partigiani scende dalle montagne e si mimetizza nei centri di pianura e nelle città o rientra in fabbrica, spesso con la consapevole complicità delle direzioni aziendali e continua l’attività di resistenza nelle file delle SAP, producendo una crescita dell’efficienza militare, perché si tratta di persone che sanno usare le armi e hanno acquisito capacità operative. Una parte di loro nella primavera del 1945 rientrerà nelle formazioni partigiane, ma una parte resterà nelle SAP e costituirà la parte più attiva nella difesa delle fabbriche e nell’iniziativa contro tedeschi e fascisti nelle giornate dell’insurrezione. Ma al di là dell’apporto militare, ciò che importa rilevare è che la SAP costituiscono il momento di collegamento e di rapporto tra il movimento partigiano e la fabbrica; sono la struttura che consente di costruire concretamente il progetto insurrezionale, che contempla l’apporto esterno delle formazioni partigiane che devono convergere sui maggiori centri da liberare, ma anche l’apporto interno da parte delle fabbriche e delle strutture che sono state preparate a questo difficile momento. Il compito di queste ultime certamente il blocco dell’ attività produttiva, ma anche di supporto armato se non altro per garantire la sicurezza delle fabbriche che fanno da riferimento alle formazioni partigiane. Senza aprire una riflessione a tutto campo sul tema dell’insurrezione, si può tuttavia rilevare che rispetto al progetto elaborato dalle forze della resistenza come un passaggio irrinunciabile per la valorizzazione politica di un’esperienza durata 18 lunghi mesi e costata una somma di sacrifici elevatissima, il risultato fu positivo. Un esito per nulla scontato esposto com’era a rischi interni ed esterni che ne avrebbero potuto comprometterne il successo o ridimensionarne la portata. Non a caso le forze della resistenza, prima di arrivare alla prova finale, vorranno verificare l’effettiva disponibilità all’azione insurrezionale chiamando allo sciopero nelle più importanti realtà industriali tutte le categorie di lavoratori, delle attività produttive e dei servizi. Questi scioperi preinsurrezionali daranno esiti convincenti e di fatto segneranno il passaggio all’ultima fase della lotta di liberazione. Nelle giornate dell’insurrezione il ruolo degli operai risulta centrale e in alcune situazioni decisivo.

In questa difficile partita il ruolo svolto dagli operai fu centrale e per certe fasi, brevi, ma decisive, fondamentale. Anche in questo caso con varianti notevoli legate strettamente alle esperienze dei mesi precedenti, ma anche alle condizioni che si producono a ridosso delle giornate della liberazione. Così si va dalla esperienza compiuta dell’insurrezione di Genova, dove la resa dei tedeschi avviene nelle mani dei quadri operai e di partito che hanno diretto la lotta, alle vicende più contrastate e rischiose dell’insurrezione a Torino, che fino all’ultimo resta esposta al rischio di uno scontro senza quartiere, alle giornate milanesi, dove l’abbandono del campo da parte delle forze fasciste e tedesche facilita la liberazione.


Libertà e eguaglianza



Nel tirare qualche conclusione sul ruolo svolto dalle lotte operaie nella vicenda italiana del 1943-45 si può partire dalla verifica del giudizio che assegna all’iniziativa operaia un ruolo parallelo a quello della lotta armata in un processo complessivo che integra i due momenti. Questa valutazione sostenuta con argomenti forti da Pietro Secchia richiede una rivisitazione, che ne rivela gli aspetti deboli. Intanto perché lascia fuori le prime fasi degli scioperi operai; in secondo luogo perché se una correlazione è certamente individuabile in alcuni passaggi, è anche vero che sono riconoscibili sfasature e distanze che non possono essere ignorate e che richiederebbero per essere a pieno comprese una rilettura critica complessiva, in cui ricomprendere e integrare anche il lavoro di approfondimento condotto in anni recenti attraverso la raccolta di testimonianze, storie di vita, documenti e memorie di protagonisti, integrando il racconto storico con la dimensione della soggettività, necessaria per cogliere aspetti raramente restituiti dalla documentazione più tradizionale.

Un secondo elemento da considerare con più attenzione è costituito dal gioco delle differenze nei comportamenti operai in rapporto al territorio e alle strutture. Le strutture industriali più importanti sono innervate nel tessuto urbano delle maggiori città del nord e dunque la cultura operaia prevalente è una cultura urbana, anche se quote rilevanti di operai, uomini e donne, sono immigrati, in prevalenza da contesti agrari sia del nord ( i circondari delle grandi città, le province limitrofe, le regioni dell’est, il Veneto, il Friuli), sia del centro, soprattutto toscani, dal sud e dalle isole, anticipazione dei flussi migratori degli anni Cinquanta. Le città industriali hanno esigenze di vita che possono essere soddisfatte solo da sistemi di approvvigionamento efficienti e sono comunque dipendenti dal rapporto con la campagna mediato da strutture specializzate. In tempo di guerra questo dato comporterà differenze sostanziali tra la condizione di chi vive in città e chi vive in contesti non urbani e dunque anche differenze notevoli nello strutturare risposte attive nel corso della resistenza.

Un terzo elemento di differenziazione è dato dalle dimensioni della fabbrica. Nelle vicende degli scioperi è evidente il ruolo giocato dalle maggiori concentrazioni industriali in generale e in esse dagli stabilimenti in cui lavorano a volte migliaia di operai, quella che è stata definita l’avanguardia di massa. E tuttavia non mancano situazioni in cui si hanno manifestazioni di sciopero radicali e prolungate in contesti in cui la fabbrica è inserita in un territorio non urbano come avviene, ad esempio nelle valli biellesi o in aree del milanese. In questi casi gioca un ruolo rilevante ( ma è un tema da approfondire) la presenza di culture politiche sedimentate nel tempo, una memoria collettiva che ha conservato tracce delle esperienze di lotte sindacali e politiche precedenti l’affermazione del fascismo. Infine in aree non urbane industrializzate come possono essere molte valli pedemontane, a volte si rivela un fattore decisivo la prossimità o meno di formazioni partigiane attive, che hanno rapporti forti con gli operai delle fabbriche locali. E negli stessi grandi centri industriali, nelle fabbriche maggiori, ma anche in quelle di medie dimensioni che spesso rivelano tassi di combattività molto elevati, giocano fattori complessi di sedimentazioni di memorie, di presenze antifasciste, di sensibilità politiche non evidenti, ma vive. In qualche modo ogni fabbrica ha una sua storia e modalità attraverso cui maturano comportamenti collettivi di contestazione o di conflitto aperto.

Ma tutte queste differenze e distinzioni che in sede analitica vanno considerate e valutate non modificano il risultato complessivo di una stagione di lotte, di conflitti, ma anche di elaborazioni e di comportamenti che danno il senso di un agire collettivo attraverso cui una parte rilevante del mondo operaio nel corso della parte più dura della guerra arriva a esprimersi come un soggetto politico di primario rilievo: in grado di condizionare i comportamenti dei suoi avversari e infine di mettere il proprio segno di protagonista sull’esito di una vicenda che risulterà fondante per ciò che il paese sarà negli anni successivi. E’ difficile pensare alle dinamiche complesse che caratterizzeranno il dopoguerra italiano e poi gli anni dello sviluppo senza ritornare a quella esperienza e a ciò che essa ha prodotto in termini di consapevolezza sociale e politica. Centinaia di migliaia di persone attraversano quell’esperienza, che è costata sacrifici duri e per un numero non piccolo anche il sacrificio estremo, passando dalla negazione di un’identità che il regime fascista non poteva ammettere, all’affermazione di un’identità che accanto ai tratti tradizionali del lavoro, porta anche il progetto o l’esigenza della costruzione di un paese libero. Di quel progetto si fanno portatrici più componenti politiche che si richiamano al lavoro e alla base sociale costituita dagli operai di fabbrica e dai lavoratori dipendenti. Alcune di queste non hanno inscritto nel proprio dna la scelta liberal democratica come tratto fondante e costitutivo. Una parte di queste continua a pensare il futuro come orizzonte in cui va data prima risposta all’esigenza dell’eguaglianza e della giustizia sociale piuttosto che a quella della libertà, perché la società capitalistica e diseguale e quindi ingiusta. E tuttavia c’è da chiedersi perché queste tensioni, malgrado la durissima fase del dopoguerra, che apre in continuazione occasioni di conflitto di interessi e tensioni sociali, restino confinate in un orizzonte del possibile , ma non del probabile. Capacità delle èlites politiche che sanno guardare con realismo alla situazione e non sono disponibili ad avventure destinate al fallimento. Certamente è così, ma è una spiegazione ancora troppo semplice; forse la risposta va cercata nel punto di sutura tra politica e società e dunque anche nel rapporto che si stabilisce tra le forze politiche della sinistra, le strutture sindacali e le componenti sociali che alimentano le une e le altre. Ciò che tiene insieme questo universo sono due elementi: uno è costituito dall’esperienza della guerra e dalla somma di sacrifici che sono stati necessari a recuperare la libertà. La libertà non è stato un obiettivo secondario; è stata la ragione ultima che coincideva con la fine della guerra e con la liquidazione di fascismo e nazismo. Averli sentiti come un unico obiettivo da conseguire è stata un’esperienza fondante per componenti significative della società italiana da cui non è possibile prescindere. Così si spiega come opzioni politiche diverse che fanno della libertà un principio irrinunciabile possano operare dentro la realtà operaia e trarne elementi di ridefinizione dei propri progetti, come avviene, ad esempio, per alcune componenti azioniste e cattoliche. Né ci sono né ci saranno questioni di principio che diventino ostacolo all’accoglimento dei principi di libertà e di diritti individuali nella lettera e nello spirito della Costituzione, che socialisti e comunisti concorreranno a scrivere e ad approvare.

Il secondo elemento deriva da un’esperienza della politica nata nei giorni del ferro e del fuoco, come momento di discussione e confronto. Una pratica fondamentale della democrazia , anche di fronte ai passaggi più drammatici. Come avviene ancora negli ultimi giorni dell’occupazione, nelle discussioni che preparano la decisione dello sciopero insurrezionale. La discussione prolungata che accompagna le scelte riguardanti le iniziative legate all’insurrezione, definisce anche un metodo del fare politica, che almeno dall’autunno 1944 ha implicato il coinvolgimento della comunità operaia. Questo rapporto ha costituito una ricchezza straordinaria perché ha costruito una capacità di scambio tra la dimensione della politica e quella della società tale da fare dei partiti di massa e dei sindacati per un lungo tratto gli strumenti primari di integrazione di componenti sociali diverse, come gli anni della grande trasformazione verificheranno, mentre a ridosso della liberazione si può dire che quel rapporto ha costituito un esercizio primario di esercizio della democrazia, da cui tutte le parti in gioco hanno ricavato vantaggi. Un esito e un tema che ancora oggi offrono abbondante materiale di riflessione.










* Università di Torino.





PROLUSIONE - 4 febbraio 2005
- Oscar Luigi Scàlfaro

BARI - 11 febbraio 2005
- Luciano Canfora
- Luigi Masella
- Vito Antonio Leuzzi

NAPOLI - 16 febbraio 2005
- Francesco Paolo Casavola
- Guido D'Agostino
- Paolo De Marco
- Isabella Insolvibile

CATANIA - 22 febbraio 2005
- Giuseppe Barone
- Rosario Mangiameli
- Salvatore Lupo

ROMA - 3 marzo 2005
- Claudio Pavone
- Alessandro Portelli

CAGLIARI - 7 marzo 2005
- Manlio Brigaglia
- Giangiacomo Ortu

BOLOGNA - 9 marzo 2005
- Luciano Casali
- Antonio Parisella

PADOVA - 14 marzo 2005
- Angelo Ventura
- Emilio Franzina


  TORINO - 16 marzo 05
  - Gianni Oliva

 Claudio Dellavalle



FIRENZE - 17 marzo 2005
- Michele Battini
- Ivano Tognarini

GENOVA - 17 marzo 2005
- M. Elisabetta Tonizzi
- Antonio Gibelli

TRIESTE - 19 marzo 2005
- Raoul Pupo
foto d'archivio
carte storiche
- Enzo Collotti

MILANO - 22 marzo 2005
- Mariuccia Salvati
- Claudio Dellavalle
- Gianni Perona



 
 
 
Inizio pagina - Indice
Precedente - Successiva