La crisi del protagonismo

 

I momenti di consonanza tra memoria personale e storia – evidenziati dal quesito posto agli intervistati: "ti sei mai sentito protagonista della storia?" - sono per lo più identificati nella partecipazione politica ai movimenti collettivi, fino al '68 e dintorni, e non ci si stupisce, quindi, che siano ancora una volta patrimonio dei meno giovani. Interessante costatare il diverso 68 di chi ha cominciato prima, con una forte carica antifascista, un legame reale con il movimento operaio, e di chi ha vissuto i movimenti studenteschi e giovanili degli anni Settanta senza retroterra, scottandosi (che non significa ovviamente compromettendosi) con il terrorismo, con evidenti cicatrici perenni. La crisi della militanza o dell’impegno politico-sociale sembra dunque decretare la fine di ogni protagonismo, inteso come partecipazione, contributo personale alle grandi scelte, sia pur nel ruolo, come dice un’intervistata, di "piccola molecola". Ma…c’è un ma: gli insegnanti, a proposito della definizione di storia, assunta per lo più come obiettivo dell’insegnamento della storia, insistono, anche appassionatamente, sulla necessità di percepire e far percepire agli studenti il senso storico come possibilità e responsabilità di operare scelte individuali. Prendo qualche esempio dalle interviste: la storia è terreno di responsabilità e di libertà, campo di possibilità, di esperienze collettive; conoscere la storia significa capire le scelte che sono state fatte e che non puoi più fare, ma che ci servono a capire che cosa possiamo fare ancora, a percepire le scelte che abbiamo davanti. Definizioni "politicamente corrette", tuttavia è inevitabile la domanda: come è possibile che venga comunicata realmente una progettualità verso il futuro da parte di questi insegnanti non la "sentono" più, una partecipazione che non vivono, da cui sono in sostanza estranei?

La mia impressione è che il "non mordere più" le cose del mondo esterno, gli eventi nazionali e internazionali, con le conseguenze di una percezione sempre più sbiadita e una memoria sempre più labile, sia un fenomeno molto vasto e generalizzato, che investe in pieno gli insegnanti e contribuisce a renderli sempre più "funzionari", nel senso della ricerca di Cavalli. E’ il fenomeno che Fortini, nel 1992, osservava a proposito della guerra del Golfo e che definiva effetto di de-realizzazione, per cui a un anno di distanza si poteva dire che nel 1991 non c’era stata nessuna guerra, ma solo la sua narrazione o invenzione. Non si tratta soltanto degli esiti universalmente deprecati della spettacolarizzazione dei conflitti o più largamente della spettacolarizzazione della scena pubblica; si tratta della crisi del circuito tra memoria personale e memoria collettiva, del non sentirsi più parte di un progetto per l’appunto collettivo.

Quella sorta di appiattimento della memoria sull’ancoraggio agli eventi della storia politica, con il triste approdo alla crisi del sistema politico, sentita come irrimediabile, a cui accennavo in apertura, mette in ombra la complessità dei processi sociali e i loro esiti sul piano dei diritti civili, in una sorta di reductio ad unum che ingenera scetticismo, sconforto, rinuncia.

Credo che, appuntando l’attenzione sulla grande trasformazione degli anni Cinquanta – Settanta quale rilevanza storiografica di riferimento per la ricerca "Memoria e insegnamento della storia", avessimo visto giusto, anche se occorre allargare l’arco cronologico sino agli anni Novanta. , infatti, in questo snodo cruciale del secondo dopoguerra, in cui assistiamo al conflitto tra il rinnovamento e la conservazione, la modernità e l’arcaico, che possiamo recuperare il peso delle lotte sociali, del nuovo protagonismo giovanile e operaio, delle aperture al dialogo e così via. Mi sembra superfluo sottolineare che questo è campo diretto di intervento e di sforzo di fantasia e di strategia per gli Istituti.

Un intervistato dice che si è sempre sentito protagonista della storia come "soggetto elaborante", insieme agli altri, anche nella scuola, con i suoi studenti. A me pare una traccia degna di approfondimento, che ci riporta fortemente al terreno delle relazioni e della soggettività, o, se vogliamo, alle ipotesi di competenze da formulare in modo nuovo, questa volta per gli insegnanti di storia.

Un’ultima osservazione: mi ha colpito, leggendo la trascrizione delle interviste, la non percezione degli aspetti conflittuali del rapporto storia- memoria. La seconda è vista spesso come ancella della prima, oppure secondo lo schema riduttivo: storia uguale storiografia, memoria uguale abbandono più o meno nostalgico all’onda dei ricordi personali, ovvero intingere le madeleinette proustiane, come dice Charles S. Maier…

Sul tema memoria probabilmente c’è ancora necessità di lavoro di formazione; forse abbiamo dati per scontati dei livelli di consapevolezza e di conoscenza dei problemi che non ci sono, o non sono sufficientemente generalizzati. Abbiamo ricche e scaltrite esperienze di costruzione e decodificazione della memoria dentro i nostri Istituti, con strumenti specifici per la didattica della storia: si tratta di farne tesoro per le nuove prospettive che questa ricerca ci apre e per i nuovi impegni che dovremo assumere.