L’8 settembre e la "morte della patria"

Renzo De Felice, in un suo libretto - intervista intitolato Il Rosso e il Nero che ha fatto molto discutere, ha riassunto le sue interpretazioni intorno al fascismo e all’antifascismo e alla questione - recentemente sollevata – concernente la perdita del senso di identità nazionale degli italiani. Le sue argomentazioni sono piuttosto complesse e derivano dalla sua lunga attività storiografica intorno al fascismo; le riassumeremo per punti, per quanto attiene al nostro discorso.

a) Secondo De Felice, con l’8 settembre 1943 si sarebbe consumata, nella coscienza popolare degli italiani, una catastrofe ideale, la perdita dell’idea di nazione che avrebbe "minato per sempre la memoria collettiva nazionale" (R. De Felice, 1995: 33). De Felice non lo dice esplicitamente nella sua intervista, ma il lettore finisce per intendere che, secondo lui, sotto il fascismo, gli italiani avessero effettivamente maturato un qualche senso della nazione (forse proprio per merito del fascismo?). Lo si inferisce da argomentazioni di questo genere: "il sentimento comune degli italiani, alla fine degli anni Trenta, era di totale fiducia per Mussolini; controllando bene le cifre, si scopre che la partecipazione volontaria alla seconda guerra mondiale fu maggiore che nella Grande Guerra" (R. De Felice, 1995: 35).

b) La Resistenza fu principalmente opera di una minoranza (ed ebbe oltretutto scarso valore militare). De Felice a questo proposito entra nel merito delle cifre: "...ho pensato di fare un conto, approssimativo ma significativo, poter delimitare il numero degli individui coinvolti dall’una o dall’altra parte: sono arrivato a 3 milioni e mezzo - 4 milioni, mettendo insieme familiari stretti e parenti lontani, amici vicini. Pochi rispetto a quei 44 milioni di persone che abitavano allora l’Italia" (R. De Felice, 1995: 54). Questa argomentazione viene usata per contestare il fatto che la Resistenza possa avere compensato (o riscattato) la disfatta morale dell’8 settembre e per sostenere collateralmente che la retorica della Resistenza è stata creata dai partiti "antifascisti" del dopoguerra.

c) Secondo De Felice l’attendismo fu la reazione più diffusa degli italiani nel periodo compreso tra l’8 settembre e il 25 aprile, dando così luogo alla formazione di una ampia "zona grigia": l'obiettivo prevalente di costoro era quello di salvare la pelle e aspettare la pace. De Felice usa il termine "opportunità" invece di opportunismo (R. De Felice, 1995: 59). Scrive lo storico: "La gran massa degli italiani, sebbene pochi furono coloro che riuscirono a non essere coinvolti, non solo evitò di prendere una chiara posizione per la Resistenza, ma si guardò bene dallo schierarsi a favore della Rsi" (R. De Felice, 1995: 59). Persa la fede nella patria, gli italiani sembrano ora, nella visione di De Felice, una massa informe dalla corta prospettiva morale, pronti per essere ulteriormente ingannati dai partiti antifascisti.

d) Lo scarso ruolo della Resistenza viene ulteriormente qualificato e in base agli esiti successivi: "Dopo il 25 aprile, non fu infatti la Resistenza ad andare al potere, bensì saranno "due partiti nuovi", a conquistare il consenso delle masse. Dietro di loro due grandi potenze: la Russia di Stalin e il Vaticano di Pio XII" (R. De Felice, 1995: 68). Indubbiamente De Felice accusa gli storici dell’antifascismo di avere creato di sana pianta il mito della lotta di popolo.

e) Questo complesso di eventi avrebbe determinato la mancanza di senso della nazione negli italiani di ieri e di oggi.

In un certo senso anche De Felice concorda con l’insufficienza della forma giuridica nel determinare la fondazione del nuovo patto; afferma infatti "Il Patriottismo della nazione e il Patriottismo della Costituzione, per me non sono in contraddizione. Solo che senza la Nazione non ci può essere Costituzione, vale a dire i valori che danno corpo al Patriottismo della Costituzione sono dei valori espressi dalla storia, dalla cultura, dalle vicende di un determinato paese non da una astrazione giuridica" (R. De Felice, 1995: 104). De Felice in un certo senso difende la Costituzione repubblicana: ciò che è venuto a mancare in Italia - per gli eventi succintamente prima ricordati - è la nazione: "La Costituzione non ha infatti in sé i germi di quella democrazia bloccata, con le sue pratiche lottizzatrici e spartitorie, che ha ingessato la vita politica italiana degli ultimi cinquant’anni. Non sono d’accordo con chi vuole individuare nella politica dei costituenti gli esiti degenerati dell’etica politica della democrazia italiana di oggi, Non credo che tangentopoli sia un sottoprodotto degradato del consociativismo delle origini. Se c’è colpa non è della Costituzione. È dello scarso patriottismo dei partiti italiani, da allora a oggi" (R. De Felice, 1995: 108 - la sottolineatura è nostra). In sostanza De Felice lamenta la mancanza di un tessuto politico e culturale orientato alla nazione e imputa ciò, oltre che alla fatalità degli eventi storici, al prepotere dei grandi partiti dalla Liberazione a oggi (non se la prende con le carenze o lo scarso impegno degli intellettuali!).

Posizioni molto simili a quelle di De Felice sono state espresse da Ernesto Galli della Loggia, nel suo libro "La morte della patria". Con maggior consequenzialità, ma anche con maggiore veemenza polemica. Galli Della Loggia, anche se i termini patria e nazione gli sembrano intercambiabili, sostiene quanto segue: "L’espressione "morte della patria" mi sembra la più adatta per definire la profondità, la ricchezza di implicazioni, in una parola la qualità tutta particolare che ha avuto in Italia la crisi dell’idea di nazione in conseguenza della guerra mondiale" (Galli Della Loggia, 1996: 4). Si tratta dunque di una radicalizzazione della visione di De Felice: la "morte della patria" è un concetto appropriato "perché in essa molti italiani vedono e sentono coinvolto lo stesso vincolo di appartenenza ad una medesima comunità nazionale, nonché il senso di tale vincolo". Aggiunge l’autore: "Il sentimento di una vera e propria "morte della patria" fu, infatti ciò che soggettivamente provò, in quel biennio terribile e immediatamente dopo, chiunque nel proprio mondo etico-politico, o solo emotivo, custodisse - in una qualunque foggia - l’idea di nazione, e dentro di sé sentisse questa idea irrevocabilmente legata all’idea, e all’esistenza, di una nazione italiana" (Galli Della Loggia, 1996: 3).

Quali furono le cause e la dinamica della cosiddetta "morte della patria"? Galli della Loggia muove dalla premessa secondo cui, nella storia d’Italia, l’idea di nazione non si è sviluppata spontaneamente, ma è stata introdotta attraverso una sorta di nazionalizzazione delle masse prodotta dallo Stato nazionale, per cui "il concetto e il sentimento di patria" per gli italiani erano (e forse sono) sono ideologicamente strettamente intrecciati alla presenza dello Stato.

Due fenomeni convergono dunque nell’8 settembre:

a) la crisi e la scomparsa dello Stato (in conseguenza delle modalità della sconfitta bellica);

b) "la sensazione diffusa in moltissimi abitanti della penisola che la sconfitta, in realtà, è stata causa e insieme prodotto e manifestazione, di qualcosa di molto grave e profondo: di una paurosa debolezza etico-politica (...) degli italiani". In altri punti si parla di "intima gracilità dell’organismo e della tempra nazionali" (Galli Della Loggia, 1996: 5-6).

Emerge dunque un "dato nella sua sostanza pre o metapolitico, difficilmente collegabile in modo diretto e significativo al fascismo e ai guasti della dittatura" (Galli Della Loggia, 1996: 7). La crisi politico militare, in altri termini, non sarebbe del tutto spiegabile con le sole responsabilità del fascismo, ma sarebbe spiegabile solo facendo riferimento a un difetto nazionale di origine: "Qui la crisi politico - militare presenta un aspetto evidentissimo di crisi di capacità e di efficienza degli apparati amministrativi e tecnici, la quale riflette a propria volta un deficit di competenza unito a un vuoto spirituale, di carattere, che trascendono il regime e mettono in gioco, immediatamente e direttamente, la credibilità della sfera pubblico - statuale del paese..." (Galli Della Loggia, 1996: 7). Nel precipitare degli eventi fu determinante il comportamento delle Forze armate, di branche decisive dell’amministrazione e dei gruppi dirigenti. Galli Della Loggia ribadisce - andando contro tra l’altro alle posizioni di N. Bobbio (1998) - che la sconfitta non si spiega con la "guerra fascista": "... per l’intera durata della guerra il complesso dell’organismo militare italiano da un lato sembra incapace di prestazioni minimamente adeguate, e dall’altro sembra percorso fin dall’inizio da un sentimento di fatalità della sconfitta, così forte da divenire una sorta di profezia che si autoavvera e di fronte alla quale conviene rassegnarsi" " (Galli Della Loggia, 1996: 9). Ma c’è di più: " ..il nesso Stato - forza militare affonda le proprie radici nelle culture umane e nelle psicologie collettive..." (Galli Della Loggia, 1996: 15) "La virtù militare ha un posto di grande rilievo nella costruzione di questo sentimento di autostima perché essa testimonia in modo immediato di quelle qualità di carattere, legate al sentimento dell’onore e della libertà (intesa come il rifiuto di porsi volontariamente in balìa altrui), nonché all’obbligo di difendere l’uno e l’altra, che da sempre sono state ritenute proprie ed essenziali di una compagine politica, di un "popolo" politicamente organizzato" " (Galli Della Loggia, 1996: 16). In altri termini qui sembra di capire che anche lo stesso fascismo sia rimasto vittima della mancanza originaria di senso della patria.

È interessante il fatto che anche Galli Della Loggia tenta di radicare l'insufficienza identitaria italiana in una dimensione quasi antropologica, una dimensione profonda, non facilmente aggirabile: "Ciò che viene in primo piano (...) è un interrogativo radicale sull’identità; sulla propria identità di individui, e poi di popolo, e infine di comunità nazional - statale. La domanda evocata è in un certo senso al di qua della politica " (Galli Della Loggia, 1996: 17). La posizione di Galli Della Loggia potrebbe essere probabilmente così sintetizzata: gli italiani, di fronte al dissolvimento dello Stato, hanno avuto una specie di "rivelazione" (quante rivelazioni nella storia d’Italia!): quello Stato prima liberale e poi fascista in cui avevano posto per necessità storica tutta la loro identità era in realtà un bluff (politico, amministrativo, militare, ecc...), per cui si sono ritrovati orfani e soli ad organizzare la sopravvivenza.

E poi? Della Loggia sembra seguire uno schema simile a quello di De Felice. Gli italiani traumatizzati dalla rivelazione della debolezza costitutiva sarebbero caduti nelle mani della partitocrazia che avrebbe costruito la retorica antifascista, ma non avrebbe posto rimedio alla debolezza.

Il libro di Galli Della Loggia, anche per la vis polemica che lo pervade e per un certo disordine argomentativo, si presta numerose osservazioni critiche. Non è del tutto chiaro se l’Autore afferma che le esperienze degli anni ‘43 - ‘45 (o forse il culminante 8 settembre) abbiano causato il senso della "morte della patria" [poiché, se la patria "muore", deve per lo meno essere dapprima viva]. Sembra che anche Galli Della Loggia pensi all’esigenza di una cultura comune che vitalizzi le istituzioni), anche se la sua teoria sembra spesso colorirsi di una venatura psicologistica (solo così si spiega la sottolineatura "traumatica" dell’evento 8 settembre). Che dire di fraseggi di questo genere: "...[la morte della patria] ... si sarebbe depositata tuttavia nel fondo oscuro della memoria collettiva - dove è rimasta per decenni non rimossa e non rimovibile..." (Galli Della Loggia, 1996: 8). È davvero difficile comprendere quale sia lo statuto scientifico di una cosa come "il fondo oscuro della memoria collettiva"; evidentemente talvolta le esigenze dell’audience prendono il sopravvento su quelle del rigore concettuale!

Indubbiamente le teorie di De Felice e di Galli Della Loggia hanno il pregio di individuare un ben preciso evento come spartiacque della storia italiana e come causa della supposta successiva situazione di assenza del senso della patria. Tuttavia la scelta dell’8 settembre suscita non poche perplessità. Per lo meno non è del tutto chiaro se gli autori intendano affermare che prima dell’8 settembre gli italiani avessero il senso della patria; in tal caso non è chiaro se una parte del merito della presenza del senso della patria debba o meno essere attribuita al fascismo; oppure non è chiaro se l’8 settembre abbia costituito la dura presa di coscienza di qualcosa che si credeva di avere, ma che in effetti non c’era (ma se il senso della patria era solo una illusione, non si può certo poi criticare i partiti della Repubblica per averlo spento!). La spiegazione più probabile è che Galli Della Loggia e De Felice pensino a un senso della patria completamente slegato dall’assetto istituzionale (dittatoriale o repubblicano), un senso della patria che, in mancanza dell’8 settembre, avrebbe forse potuto essere traslato in maniera indolore dal fascismo alla Repubblica.

La scelta stessa della data del "trauma" è stata contestata. Ha affermato ad esempio Norberto Bobbio: "Quando mi è stato chiesto quale delle due date della storia d’Italia, il 10 giugno del 1940 e l’8 settembre del 1943, fosse per me la data più tragica, io ho risposto: la data del 10 giugno. L’ 8 settembre non è altro che una conseguenza del 10 giugno. Ciò dipende dal fatto che l’Italia si è lasciata coinvolgere nella guerra nazista. [...] L’ 8 settembre è la conseguenza per aver partecipato a una guerra dannata, ad una guerra che era destinata ad essere perduta."

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