Il potere globale


Il sociologo tedesco Ulrich Beck definisce la guerra del Kosovo come guerra postnazionale. E’ una nuova guerra, perché non è combattuta per interessi nazionali, non vi sono rivalità tra stati nazionali, anzi vi è una crisi della sovranità nazionale e vi è l’affermazione di una morale civilizzatrice dei diritti umani. Beck sottolinea come la politica dei diritti umani sia una religione civile degli Usa, ma c’è il rischio che la potenza egemone decida che cosa è il diritto e che la guerra venga considerata il proseguimento della morale. Si delinea un umanesimo militare con missioni cosmopolite, una sorta di crociata democratica come autolegittimazione dell’Occidente.
Clausewitz definisce guerre di espansione o per interessi geostrategici tra stati nazionali, mentre la guerra postnazionale deriva dall’erosione delle strutture statali e dall’emergere di un’identità etnica contro altre identità. Vengono ad essere svuotati i diritti di sovranità nazionale a favore dell’affermazione di una responsabilità globale, che confonde interventi legittimi con la vecchia politica imperialistica. Si delinea anche un nuovo pacifismo, il pacifismo militarista, miscela tra pacifismo e imperialismo. Negli anni ’90 si verifica il crollo delle istituzioni statali e l’aprirsi contestuale delle tragedie umanitarie.

I tre brani sono tratti dall’articolo Ecco l’era delle guerre postnazionali in "Reset", maggio-giugno 1999, pp.10-14.

Stiamo assistendo alla nascita della guerra postnazionale. Tutto ciò che rende gli attacchi Nato alla Jugoslavia così paradossalmente (il)legittimi può portare facilmente all’attestazione di un nuovo tipo di guerra nell’epoca globale. Una guerra postnazionale (e quindi non più comprensibile nei termini di Clausewitz) perché non più combattuta in nome dell’interesse nazionale – "il proseguimento della politica con altri mezzi" – è una guerra che non può più essere compresa a partire da vecchie rivalità tra stati nazionali più o meno nemici. Al contrario, a rendere postnazionale questa guerra in Kosovo è proprio da una parte il ritirarsi globale dell’ordine sovrano nazionale, l’indebolirsi, o meglio l’imbarbarirsi dello Stato che provoca deportazioni e genocidi a spese dei propri cittadini, dall’altra la fede nella morale civilizzatrice dei diritti umani. "la guerra è la pace" (Orwell). In realtà la guerra postnazionale nasce quando vengono meno le classiche differenze tra guerra e pace, interno ed esterno, attacco e difesa, diritto ed arbitrio, vittime e carnefici, civiltà e barbarie.
Il neorealismo politologico secondo cui a dominare sono sempre i calcoli e gli interessi nazionali fallisce perché non sa capire né decodificare il nuovo gioco di potere della globalizzazione. Chi crede che gli Stati Uniti facciano solo finta di fare i poliziotti del mondo per affermare nella polveriera dei Balcani degli interessi economici e geopolitici semplicemente americani, stravolge la realtà. E non solo: si impedisce di vedere quanto la politica dei diritti umani (al pari dell’affermazione del "libero mercato") sia diventata la religione civile, il vero e proprio credo degli Stati Uniti.Nel documento delle Nazioni Unite "Report of the Commission on Global Goernance" si dichiara che le organizzazione sovranazionali non puntano solo a governare la globalizzazione economica ma anche ad affermare una nuova etica della democrazia globale e dei diritti umani.
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Lo scoppio della guerra nel kosovo ha messo a fuoco un aspetto: sta nascendo una nuova politica postnazionale di umanesimo militare, di intervento di potenze transnazionali che si muovono per far rispettare i diritti umani oltre i limiti dei confini nazionali. La buona notizia è anche la cattiva: il potere egemonico decide cos’è il diritto e cosa i diritti umani. E la guerra diventa il proseguimento della morale con altri mezzi. Proprio per questo diventa difficilissimo porre dei paletti politici all’escalation della logica di guerra.
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Ma non solo: si potrebbe addirittura parlare del pacifismo militarista come di una pillola miracolosa con cui vengono sanati politici malaticci e in difficoltà. Per un socialdemocratico è forse addirittura più facile dare il proprio assenso ai bombardamenti Nato nella ex-Jugoslavia che rimboccarsi le maniche per riformare finalmente le pensioni – come tante volte annunciato – e abbattere la disoccupazione.
Il pacifismo militare, la nuova miscela di generosità umanitaria e logica imperialistica viene preparato, normalizzato e generalizzato con un processo che chiameremmo "circolo della globalizzazione": l’erosione del potere territoriale fa scoccare l’ora della responsabilità globale. La globalizzazione (comunque la si intenda) indebolisce la sovranità nazionale e le strutture statali. Negli anni novanta il crollo delle istituzioni statali ha portato a guerre e terribili tragedie umanitarie, da ultimo nella ex-Jugoslavia, ma prima già in Somalia, in Africa occidentale e in alcune zone della ex Unione Sovietica. Qualcosa di simile potrebbe accadere ora con la crisi finanziaria in Asia orientale, ad esempio in Indonesia. Anche nei casi in cui l’indebolimento del potere centrale statale non sia da ascrivere direttamente all’influenza dei nuovi mercati globali, è chiaro però che così si accentua o sale in superficie un vuoto di legittimazione e di potere fino ad allora nascosto. Accade quindi che i compromessi tra i gruppi etnici perdano il loro carattere vincolante e i conflitti latenti esplodano in guerre civili. Poiché però tutto ciò accade davanti all’opinione pubblica mondiale si ripresenta costantemente il dilemma - intervenire o voltarsi dall’altra parte – e il pacifismo militarista dell’Occidente comincia a scricchiolare. In un sistema mondiale di Stati deboli come quello ora propagato dalle politiche neoliberali, nulla più si oppone ad una manipolazione imperialistica della missione cosmopolita. Ma questo – oggi – non lo vuole nessuno.
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la guerra postnazionale