Educare
il cittadino, educare alla cittadinanza: quante volte abbiamo letto,
sentito, ripetuto noi stessi queste parole, logorate dall’uso, ma
che pure racchiudono un principio e un obiettivo fondamentale,
irrinunciabile per la scuola e, ancora più largamente, per ogni
attività formativa.
I
problemi s’incontrano non nell’enunciazione, ma nel passaggio
all’attuazione, al che fare e come fare, e
sono problemi di tutto rispetto. Come sempre succede per i grandi
principi, per gli obiettivi irrinunciabili, il rischio di limitarsi a
coniugare l’enunciazione, di perdersi in pure variazioni
linguistiche intorno alle parole chiave, è molto alto.
A
dimostrarlo, la poco consolante e poco edificante vicenda
dell’insegnamento dell’educazione civica nella scuola italiana,
tardivamente introdotta alla fine degli anni Cinquanta, con
un’ambiguità di fondo: da un lato la nuova materia costituiva una
tentativo di rinnovamento, di riforma, di apertura della scuola ai
problemi della società; dall’altro era un modo per eludere
l’incontro con l’insegnamento della storia contemporanea, per non
affrontare nella sede propria i nodi cruciali del fascismo,
dell’antifascismo, della Resistenza, della nascita della democrazia,
i versanti considerati pericolosi, troppo “politici”.
Ma
quale fu la risposta, in concreto, al tentativo di innovazione? Fino
agli anni Settanta e anche oltre, in molte realtà scolastiche –
tranne rare e illustri eccezioni, rappresentate da autori come Ada
Gobetti, Alessandro Galante Garrone, Norberto Bobbio – i testi
maggiormente in uso si fondavano su un idea dell’educazione civica
non soltanto prescrittiva e predicatoria, ma assai lontana dallo
spirito della Costituzione repubblicana che avrebbero dovuto
insegnare, all’insegna della continuità con la tradizione della
scuola prefascita e fascista piuttosto che della rottura resistenziale
e democratica: “Il padre e l’insegnante rappresentano l’ordine,
la disciplina, insomma la legge” scrive, emblematicamente,
l’autore di uno di questi manuali (Renato Verdina, Civis,
1959).
E
dopo? Che cosa è avvenuto negli anni successivi? Ancora molte,
moltissime “prediche”, peggio che inutili, ma per fortuna si è
accumulato anche un ricco patrimonio di innovazioni e sperimentazioni,
aperte ai problemi della società attuale. Per educare alla convivenza
democratica bisogna costruire un sistema di valori condiviso, per
costruire un sistema di valori condiviso occorre impegnarsi in una
serie di attività didattiche coinvolgenti, capaci di diventare esperienza dei ragazzi, di entrare dunque nella costruzione della
loro memoria. Si parla molto di deficit
della memoria storica nei giovani: non voglio e non posso entrare
qui nel merito della questione, tuttavia permettetemi un accenno: non
è affatto fatale che ci si debba arrendere alla destrutturazione
temporale, connessa ai processi della condizione contemporanea. Si può
– oso dire: si deve – costruire memoria proprio nei giovani, ma
perché questo avvenga è necessario comunicare e suscitare
esperienza.
Sul
terreno dell’innovazione nel campo dell’educazione civica si sono
impegnati gli Istituti della Resistenza, con una serie di attività e
realizzazioni che non ho ora il tempo di richiamare (per uno sguardo
d’insieme rimando a Fare storia: la risorsa del Novecento. Gli Istituti storici della
Resistenza e l’insegnamento della storia contemporanea 1996-2000,
edito a cura della Commissione didattica dell’Insmli, Modena, 2000),
e che hanno intrecciato il tema dell’educazione alla cittadinanza
con altri nuclei tematici ad alta densità formativa: educazione alla
legalità, multiculturalismo e diritti di cittadinanza, Resistenza e
Costituzione, i diritti delle donne e così via. Qui si possono
rintracciare le nuove frontiere
dell’educazione civica: l’apporto dell’Isuc in tal senso è stato molto
significativo anche per il complesso della rete degli Istituti, oltre
che del territorio in cui l’Isuc opera. Vorrei ricordare almeno un
esempio: il contributo determinante offerto dall’Istituto
dell’Umbria all’esperienza didattica Attenti
all’uomo. Un percorso alla caccia dei valori dentro la Costituzione (
Perugia, 1998), che presenta un percorso di grande ricchezza e
interesse, dalla visita alla Risiera di San Saba al tema delle leggi
razziali e della Shoah per approdare ai principi della Costituzione
Nelle
nuove frontiere dell’educazione civica si colloca appunto, e a pieno
titolo, questo progetto Per la
costruzione di un cittadino consapevole, di cui oggi ci occupiamo.
Al
centro del progetto troviamo la visita delle classi al Consiglio
regionale, che diventa un momento importante per educare alla
cittadinanza, importante in sé, per la sua preparazione e per i suoi
sviluppi. Questo Laboratorio,
accompagnato dal dossier di
materiali e documenti, di cui sono autori Dino Renato Nardelli e
Giovanni Codovini, dà agli insegnanti e quindi ai loro studenti la
possibilità di visitare un luogo, in senso forte, un luogo strategico
dell’esercizio della cittadinanza e dell’incontro con la politica:
il Consiglio regionale.
Siamo
agli antipodi dalla visita rituale da gita scolastica, tipo “mordi e
fuggi”, purtroppo assai diffusa e destinata a non lasciare traccia,
o meglio a funzionare soltanto negativamente nel processo educativo.
Questa è una proposta per educare al luogo, alla percezione dei complessi significati, degli
aspetti simbolici, degli spessori storici, attraverso la fisicità dell’incontro concreto e materiale, per cui il luogo
riacquista la pienezza dei suoi significati appunto fisici e simbolici
e diventa un luogo della memoria, per costruire la memoria dei
giovani.
E’
questa la prima cosa positiva che mi ha colpito della realizzazione
dell’Isuc, perché credo che educare ai luoghi, in questo senso, sia
uno degli aspetti centrali della formazione storica del cittadino
consapevole. E’ necessario, a mio avviso, che l’azione educativa
ponga in atto delle strategie per contrastare la tendenza al dilagare
dei non luoghi della
condizione contemporanea. Marc Augé invita appunto a considerare il
non luogo come contrario del luogo, come “spazio in cui chi lo
attraversa non può leggere nulla della sua identità ( del suo
rapporto con se stesso), né dei suoi rapporti con gli altri o, più
in generale, dei rapporti tra gli uni e gli altri, né a fortiori
della loro storia comune”. La riflessione dello studioso francese
stabilisce quel legame tra luogo, relazioni e identità con cui siamo
chiamati a misurarci.
Il
Laboratorio di Nardelli e Codovini, immettendoci nel cantiere del
“potere” regionale (Come
lavorano il Consiglio e le Commissioni regionali), prospetta
dunque l’incontro con un luogo strategico dell’esercizio della
democrazia, dei suoi diritti e dei suoi doveri, attraverso esercizi di
lettura, di interpretazione, di elaborazione dei linguaggi, delle
regole, dei meccanismi, del funzionamento del Consiglio Regionale, dai
più semplici ai più complessi. Nella seconda parte, Geopolitica del regionalismo umbro, apre squarci e aperture verso
momenti e problemi di storia costituzionale e istituzionale, con i
grandi temi del federalismo e dei suoi rapporti dell’autonomia,
della storia dell’Umbria nel quadro del regionalismo italiano.
Oltre
agli esercizi di laboratorio già organizzati, i materiali presentati
aprono un ventaglio di possibilità e di vie da percorrere,
suggeriscono alla creatività e all’iniziativa degli insegnanti una
gamma di intrecci in varie direzioni. Ne indico alcuni:
-l’innesto con la storia delle origini della Repubblica, dalla
Resistenza alla Costituzione- lo snodo centrale e cruciale della
storia d’Italia del Novecento -, la considerazione del lento e
tormentato cammino che ha accompagnato la difficile, imperfetta
attuazione della nostra Carta costituzionale. Penso, ad esempio, al
dibattito alla Costituente attorno alla tema delle Regioni e alla
mancata attuazione per lunghi anni di questo istituto, che fa sì che
le Regioni- come ha osservato Claudio Pavone – nascano “vecchie”
nel 1970. Molti spunti da approfondire sono già presenti nel volume
dei Documenti, a partire
dall’attenzione critica che Raffaele Rossi dedica al pensiero
federalista democratico e ai mutati rapporti tra centro e periferia o
dalle osservazioni di Massimo Luciani sulla negazione fascista delle
autonomie locali e sullo sforzo messo in atto dalla Costituente per
giungere a una mediazione alta, intesa come ricerca del “comune”,
non del “diverso”
-la
contestualizzazione storica dell’istituzione delle Regioni nel 1970,
verso la conclusione di alcuni dei processi fondamentali della
“grande trasformazione” dell’Italia del dopoguerra. La
documentazione relativa all’insediamento del Primo Consiglio
regionale dell’Umbria facilita la focalizzazione di una serie di
domande, che naturalmente si possono estendere ad altre realtà
regionali: come si pongono le Regioni, quali le loro politiche nei
confronti della “stagione dei movimenti”, delle profonde esigenze
di rinnovamento, dei problemi e delle trasformazioni degli anni
Settanta?
-la
questione delle identità e delle culture locali, anch’essa presa in
considerazione nel lavoro di Nardelli e Codovini, che si pongono il
problema – come è detto nella Premessa-
dei rapporti tra cittadinanza “di terra” e cittadinanza di
“sangue”. E’ un tema vastissimo e complicato, ma che bisogna
affrontare con la consapevolezza dei meccanismi sociali di costruzione
della memoria e di invenzione della tradizione (i caratteri attributi
agli abitanti sono spesso frutto della costruzione di una memoria
collettiva che idealizza il positivo, espunge e rimuove gli elementi
negativi e conflittuali, spostandoli sull'estraneo, sul diverso );
-i
nuovi bisogni di cittadinanza, con i temi che legano immigrazione e
cittadinanza; la cittadinanza europea; i diritti delle donne;
-l’autonomia
scolastica e la partecipazione consapevole di docenti e studenti, già
direttamente affrontata nel Laboratorio
come terreno concreto di pratica e di verifica, ma passibile di
molti sviluppi.
Questo
Laboratorio non è facile, richiede preparazione, aggiornamento,
determinazione da parte dei docenti, ma facilita un compito ambizioso
e essenziale: dà significato ai “luoghi”, alle carte, alle parole
della democrazia.
La
democrazia è un’arte difficile, faticosa, complicata e richiede la
conoscenza del complesso funzionamento della “macchina” delle
istituzioni democratiche. Il primo approccio è fondamentale, appunto
per contrastare la sfiducia nelle istituzioni che sembra essere una
pesante peculiarità della situazione italiana. Qui Nardelli e
Codovini propongono una serie di esercizi per la restituzione della
pienezza del significato alla carte e alla parole della vita politica
e amministrativa quotidiana, capaci di far vivere ai ragazzi quello
che sta dietro la convocazione, l’ordine del giorno,
l’interrogazione,. e che il dilagante senso comune liquida sempre
con fastidio, con disprezzo, come burocrazia.
Il
fastidio verso le complicazioni della politica, verso gli inevitabili
andirivieni dei confronti e delle mediazioni, del rapporto con gli
altri – siano essi istituzioni o singoli soggetti - è entrato
largamente nel senso comune ed è alimentato, vezzeggiato,
incoraggiato dai “modelli” imposti dai mezzi di comunicazione di
massa. Questo fastidio si traduce in fastidio verso la democrazia tout – court, diventa disimpegno e tendenza a delegare
l’esercizio del potere politico e amministravo al tecnico, al
“decisionista”.
Proprio
qui deve “mordere” l’educazione civica, a me pare, accettando
una sfida molto ardua, ma altrettanto necessaria, se non si vuole
rinunciare in partenza alla costruzione della cittadinanza
consapevole.
C’è
un grande spessore di riflessione su questi problemi, cruciali per la
democrazia nei paesi ricchi e sviluppati. Vorrei richiamare soltanto
una riflessione di Zygmunt Bauman: la libertà del cittadino nella
nostra società opulenta è basata sull’assenza di limiti, sul
disinteresse per il bene comune, sul conformismo, ma è una libertà
illusoria per la sua sudditanza ai modelli e ai consumi imposti dal
mercato e ha come conseguenza l’aumento dell’impotenza collettiva
e la paralisi della politica (La
solitudine del cittadino globale, Milano, 1999)
Io mi permetto di aggiungere: la paralisi della politica vera, che
è fondata sulla partecipazione critica e attiva.
A
questo proposito mi piace soprattutto ricordare un ammonimento vecchio
di decenni, ma attualissimo nella sostanza. Vorrei ricordare quello
che scrive dal carcere Giacomo Ulivi, lo studente di 19 anni fucilato
dai fascisti a Modena nel 1944, quando, rivolgendosi ai compagni,
sostiene che nel pur legittimo desiderio di quiete, di una laboriosa
vita dedicata al lavoro e alla famiglia, è il segno dell’errore
“perché in questo bisogno di quiete è il tentativo di allontanarsi
il più possibile da ogni manifestazione politica”. E’ il più
terribile risultato di un ‘opera di educazione negativa,” che è
riuscita a inchiodare in noi molti pregiudizi […]fondamentale quello
della sporcizia della politica […].Tutti i giorni ci hanno detto che
la politica è un lavoro di specialisti […]. Lasciate fare a chi può
e deve; voi lavorate e credete, e quello che facevano lo vediamo ora
che nella politica –se vita politica vuol dire soprattutto diretta
partecipazione ai casi nostri – ci siamo scaraventati dagli
eventi”.
Abbiamo
bisogno di contributi come questo di Nardelli e Codovini, realizzato
dall’Isuc, per non abbandonare i giovani alla diseducazione politica
- per usare le parole di Giacomo Ulivi – che oggi è rappresentata,
ad esempio, dagli spettacolini televisivi, dai molti e potenti
messaggi che vanno appunto a costruire il distacco e il pregiudizio,
per insegnare invece la diretta partecipazione, le sue difficoltà, le
sue lentezze, ma il suo irrinunciabile contributo alla costruzione
della cittadinanza consapevole.


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