I confini liquidi


Renzo Franzin, prendendo spunto dalla storia del paesaggio di Tournier e dal saggio di Claudio Magris "Danubio", spiega come la distruzione di edifici, ponti, infrastrutture operata dalle bombe in Serbia e Kosovo non abbia provocato soltanto paurosi danni materiali, ma ha anche provocato l’incomunicabilità tra le terre dell’ex-Jugoslavia, i cui confini sono liquidi, perché segnati dai fiumi e i ponti, distrutti da molte guerre e sempre ricostruiti, sono materialmente e simbolicamente gli strumenti per scavalcare incomprensioni e odio tra popoli e culture diversi.

I due brani sono tratti dall’articolo Un fiume gonfio di macerie in "Il Manifesto", 5 giugno 1999.

In quello  (mondo) balcanico, prima delle guerre di dissoluzione della ex- Yugoslavia, le masse sedentarie erano le grandi città, Lubiana, Zagabria, Vukovar, Sarayevo, Belgrado, moderne e europeizzate, con quel tanto di cosmopolitismo in più che non veniva loro solo dall’onnipresente Impero, ma da quel Mediterraneo che qui, al di là della dorsale di costa, si chiama Adriatico e anche Mar Nero da cui sono debolmente e fatalmente separate. Le comunicazioni, invece, sono affidate più che alle infrastrutture tradizionali (strade, ferrovie ecc.) al senso stesso di un movimento difficilmente rintracciabile in un altro contesto, fino a cinquanta giorni fa invisibile agli artigli delle molte guerre locali, quello rappresentato dalle acque degli innumerevoli bacini idrografici che s’infilano fra i gradini boscosi della cerniera di monti che segnano tutta la penisola.

I confini liquidi

Dal Triglav sloveno sino al Vardar ( che i greci chiamano Axios) l’orizzonte balcanico è scavato essenzialmente dai suoi molti fiumi di cui il Danubio, placido e navigabile (come pochi altri nella regione), è solo il supremo opposto, la fossa confinaria, una trincea liquida fra innumerevoli limes geopolitici. Circondato da una rete di fiumi effimeri, sotterranei o impetuosi, sempre all’opera nello scavarsi la via verso il suo letto (o i meandri della Sava e della Drina)è più raramente al mare, il grande fiume è un confine storico, inappellabile alle leggi della convivenza, incredibile per la verità delle culture che vi si affacciano, confondendosi e dividendosi, e unico per il grado d’instabilità dei regni che attraversa.
I popoli della sua riva destra – croati, serbi, bosniaci, kossovari – sono essenzialmente nomadi, di un nomadismo circolare che pur occupando il centro della propria invincibile patria, non rinunciano a contaminare il cortile del vicino inoculandovi il germe della krajna. Costretti fra il Mediterraneo e il grande Danubio (in questi luoghi Dunav), schiacciati a nord e a sud da culture estranee e persino nemiche, esposti ai venti che con l’acqua sono i creatori di questo profilo geografico, gli slavi dei Balcani sono, con le loro terre, il punto da cui comincia per proseguire verso est, per dirla con Ivo Andric, ogni divisione possibile e da cui prende forma visibile, in esodi e diaspore, il dramma di partenze e ritorni senza fine e senso apparente. Nell’interno, fra dossi e foreste, la civiltà della comunicazione è stata costruita e distrutta, nell’indifferenza dell’Europa, decine di volte, fra il fragore di acque e i sibili di venti inarrestabili, quasi che la natura, <<….perduto ogni potere su sé stessa, diventi disperato dominio e bottino degli elementi che la compongono>>. Lì, dalle regioni dei fiumi brevi e sotterranei, in uno scenario perennemente inselvatichito, da sempre, uomini pieni delle loro ragioni scendono dalle montagne per itinerari e riscatti che se impediti al mare si volgono verso la grande pianura che porta alla casa madre russa o verso il sud nell’improbabile conquista di supremazie territoriali e culturali. Oggi, fino alle loro stesse città occupate da questo nomadismo impazzito.

I ponti tra le culture

Eppure in nessun altra parte del mondo i fiumi sono stati, come nei Balcani, anche l’impalcatura di culture tolleranti e multietniche, sapienti e moderne, la confusione vitale che ha rappreso in forme del tutto inedite le convivenze di popoli, culture e religioni apparentemente inconciliabili. Solo qui, i ponti sui fiumi (mirabili quelli che in epoca veneziana e asburgica unirono i corpi divisi delle città) sono stati pensati e realizzati per scavalcare l’incomprensione e l’odio che s’era inabissato a segnare tutte le regioni della ex-Jugoslavia e sono lo specchio che ha consentito a culture estranee di guardarsi e confondersi pur da rive diverse.
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In ogni guerra si tenta di ridurre la capacità di movimento del nemico bombardando le vie di comunicazione: in questa contro la Serbia , nella distruzione dei ponti, la Nato ha posto una cura particolare fino a isolare completamente dal resto del paese e dagli stati confinanti il cuore regione, riportando le sue arterie principali, la Sava, la Drina e il Danubio, al loro antico destino d confini.

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