Un percorso tra i luoghi della memoria

di Tristano Matta

Sommario

  1. Nel luogo della memoria si identifica "ogni unità significativa, di natura materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha trasformato in elemento simbolico di una comunità" (Pierre Nora).
  2. Luoghi della memoria del Novecento sono, in particolare, i luoghi testimoni della deportazione e della discriminazione contro gli ebrei.
  3. Tali luogh dovrebbero partecipare non solo a un processo di monumentalizzazione e di restituzione, ma anche a quello di appaesamento.
  4. Il loro destino è legato a una scelta di politica culturale, la politica della memoria appunto.
  5. Se ciò non dovesse avvenire e se prevalesse la politica dell’oblio "il fossato della smemoratezza potrebbe ridurre la nostra vita di individui a una serie di momenti che non hanno più senso"(P.Rossi)

 

Chiarisco subito che non è mia intenzione tuttavia ripercorrere ancora una volta un itinerario descrittivo tra quei luoghi che in Italia ricordano le vicende della discriminazione e della deportazione: mi limiterò su questo ad alcune indicazioni essenziali sui lavori già fatti e facilmente reperibili, che conto di integrare in sede di presentazione dei materiali nel workshop del pomeriggio. Il mio contributo tenterà piuttosto preliminarmente di orientarsi tra le diverse letture che del concetto di luogo della memoria si sono proposte e sembrano emergere negli ultimi anni, sia a livello di ricerca e dibattito scientifico che di cultura di massa, per soffermarsi poi su alcuni riflessi che a me pare si possano cogliere di esso nell’esperienza italiana.

Tra le numerosissime righe di commento e di analisi che ci hanno recentemente inondato in occasione del lancio pubblicitario dell’ultimo film di S. Spielberg, l’ormai arcinoto Salvate il soldato Ryan, una piccola notizia di cronaca mi ha particolarmente colpito e fatto riflettere. Si sarebbero già verificati, sulle coste della Normandia, diversi casi di turisti o viaggiatori che chiedono indicazioni ed informazioni per recarsi sulla tomba del soldato di cui parla il film. Sepolcro ovviamente inesistente perché parto della creazione degli sceneggiatori. Al di là della notizia di colore e dei suoi aspetti anche comici, ancorché non inediti, l’episodio mi pare indicativo di un duplice ordine di fenomeni che qui a noi devono interessare e sui quali è conveniente che si rifletta.

Innanzitutto esso mi sembra una conferma clamorosa, ma certo solo ultima in ordine di tempo, di come la potente ragnatela mass-mediatica che avvolge e domina la nostra esistenza sia in grado di creare con grandissima rapidità non solo nuovi miti, ma anche nuove false memorie, in questo caso addirittura un luogo della memoria inesistente.

Ed allo stesso tempo il fatto mi pare confermare per converso il bisogno diffuso, la ricerca — da parte di quello che i media definiscono come pubblico — di simboli e riferimenti, concreti e tangibili, alla memoria di quell’arco di secolo che intorno alla seconda guerra mondiale ha definito i caratteri del nostro recente passato, e che sono di fatto infinitamente meno diffusi — e meno codificati nell’elaborazione della "religione civile" — di quelli che ad esempio sono stati realizzati e consacrati in Europa occidentale a ricordo della Grande guerra. Un’esigenza diffusa alla quale, se vogliamo, l’invenzione in questione offre dunque una sorta di surrogato di risposta.

È necessario riflettere sui rischi che oggi corriamo di una rielaborazione, e vera e propria manipolazione, della memoria diffusa della storia di questo secolo, rischi derivanti dall’uso commerciale che il mercato dei mezzi di comunicazione di massa fa di quella memoria – e che in fondo sarebbe un aspetto più aggiornato, una variante, di quella invenzione della tradizione che Hobsbawn e Ranger hanno tanto efficacemente individuato come uno dei momenti non secondari nel processo di elaborazione dell’immaginario delle identità nazionali e culturali. Rischi che sono sotto gli occhi di qualsiasi osservatore solo avveduto, e che vanno ben al di là dell’episodio in fondo innocente che ho precedentemente richiamato.

Quello che inoltre tuttavia a me pare ancora più importante è sottolineare da un lato l’importanza del fatto che esiste indubbiamente una domanda di memoria e simbologia storica relativa alle vicende della deportazione e della persecuzione razziale, e dall’altro che mentre sussistono ancora tra noi numerose testimonianze fisiche, numerosi siti, che potrebbero a ben diritto assumere il compito di diventare i luoghi-simbolo di questa memoria, molto poco hanno fatto e fanno in Italia la cosiddetta società civile e le istituzioni (rispetto a quanto accade invece in altri paesi, come ad esempio la Germania) per salvaguardarne l’esistenza, favorirne la cura, potenziarne le risorse e consentire insomma ad essi di svolgere a pieno titolo il ruolo di autentici "luoghi della memoria". È questo un discorso particolarmente delicato, come vedremo, proprio se riferito ai luoghi della memoria della persecuzione razziale e della deportazione sui quali riflettiamo qui oggi.

Ma prima di svolgere questo punto, mi pare importante richiamare brevemente il dibattito che intorno al nesso memoria/storia/luoghi della memoria si è sviluppato di recente.

Qualcuno potrebbe ritenere, e certe superficiali recensioni apparse sulla stampa lo autorizzerebbero a farlo, che i dibattito che in questi ultimi anni si sta svolgendo intorno al rapporto conflittuale tra memoria e storia ed il fiorire di lavori ed iniziative sul tema della memoria anche intorno agli stessi luoghi della memoria, sia frutto di una moda passeggera legata a ricorrenze e contingenze cronologiche, come al cinquantenario della fine della guerra o al fin troppo abusato bilancio di fine millennio. Oppure sia connesso alle scelte diffuse dei media, i quali, avendo scoperto l’importanza economica del target della "mezza" e della "terza età", hanno deciso di dedicare all’operazione nostalgia/memoria una crescente attenzione, in tutti i campi di quello che si definisce con un brutto neologismo infotainment (dalla fusione nel nuovo linguaggio dei media tra intrattenimento ed informazione).

Certo è che la nozione di "luogo della memoria" appare ormai alla moda, dunque gode di alta diffusione, ed è quindi a rischio di abuso e fraintendimento: esiste ad esempio una rubrica con questo titolo su di un settimanale ad alta tiratura (uno degli ultimi servizi dedicato alla vecchia ferrovia della petite ceinture parigina). Molto spesso si tratta di quelli che io definirei piuttosto "luoghi della nostalgia", che hanno come dicevo un preciso mercato nell’attuale universo mediatico, e che con i luoghi della memoria non hanno molto a che spartire. Il rischio che nella nostra cultura di massa si imponga piuttosto una visione che è quella del luogo della nostalgia invece del luogo della memoria di cui parlano gli storici, c’è e va tenuto presente.

A me invece pare importante sottolineare il carattere estremamente serio della riflessione in atto in campo storiografico su questi temi. E rilevare come il fenomeno si situi, certo, in una contingenza storica particolare e ben precisa qual è quella della riflessione dell’Europa su di sé e sulla propria identità all’uscita dal bipolarismo dei blocchi dopo l’89, ma sia nello stesso tempo — e forse in misura più rilevante — frutto dell’esigenza sempre più sentita di allargare la prospettiva della ricerca e della riflessione storiografica alla più ampia dimensione del coinvolgimento della popolazione civile — di quella che si definisce la gente comune — nei grandi eventi storici del nostro secolo ed in particolare in quelli legati alla seconda guerra mondiale. Di qui il recupero di una dimensione, quella della memoria dei protagonisti — vittime, aguzzini e spettatori (per parafrasare il titolo di un notissimo volume di Hilberg) — che tanta parte ha proprio nella ricerca su aspetti come la discriminazione, la persecuzione razziale e la deportazione, e che come ha molto opportunamente sottolineato Anna Rossi-Doria in un suo recente importante contributo ha svolto per lunghi anni una funzione di supplenza di fronte a quella che l’autrice definisce la "latitanza degli storici".

Più che per un cedimento ad una moda, insomma, è a mio giudizio proprio per un consapevole recupero di un ritardo nella ricerca che si è avviato tra gli storici, per poi coinvolgere anche il mondo dei non addetti ai lavori, un dibattito sul culto della memoria. Dibattito che qui non si può che richiamare per cenni molto generali e che ha visto la contrapposizione tra quanti hanno preferito sottolineare la totale alterità tra memoria e storia ed hanno visto nell’eccesso di memoria e nella diffusione del suo culto una sorta di fuga dal politico, dal piano della progettualità o, per altri versi, un veicolo artificioso e strumentale per la costruzione o ridefinizione di identità esclusiviste (siano esse comunitarie, etniche, nazionali), e quanti, invece, dall’altra parte hanno posto il problema di una integrazione tra storia e memoria, pur nella distinzione dei due ambiti, riconoscendo alla prima il ruolo di unico autentico antidoto ai processi di oblio e di manipolazione del passato, ed alla seconda il ruolo di fondamento di una autentica coscienza civile nel presente, fondata sull’assunzione responsabile del carico del proprio passato e non sulla sua mitizzazione e/o cancellazione.

Tale dibattito coinvolge necessariamente anche il tema specifico che a noi interessa dei "luoghi della memoria". Certamente anch’essi possono essere oggetto di operazioni non innocenti: lo sono stati in passato, lo sono tuttora e lo saranno probabilmente anche in futuro. Operazioni non innocenti che vanno dell’uso del luogo come arma del conflitto politico, altamente coinvolgente per la sua carica simbolica (e tra gli esempi possiamo citarne uno italiano, come quello delle polemiche sulla memoria della Risiera di San Sabba e sulle "foibe" ed uno europeo, quale il caso del Kosovo), alla reinvenzione/manipolazione della storia (la commemorazione decontestualizzata del D-Day nel ‘95 in Francia), alla lettura talora esclusivista (come quella che rischierebbero di proporre, secondo alcuni critici, da alcuni memorial dell’Olocausto negli Stati Uniti), al tentativo di occupazione/appropriazione (come è stato — nella sua forma più clamorosa — nel caso del Carmelo di Auschwitz ed è ora con la nota vicenda delle croci), fino alla banalizzazione ed alla commercializzazione pure e semplici. Con questi rischi noi dobbiamo fare i conti e stare attenti a denunciare e smascherare ogni abuso e a non confondere la tutela critica della memoria né con il business della memoria né con la costruzione della memoria.

Il concetto classico di "luogo della memoria" è notoriamente quello definito già negli anni Ottanta in Francia da Pierre Nora ed ormai ripreso dai grandi dizionari. Il Robert lo definisce come "un’unità significativa, di natura materiale o ideale, che la volontà degli uomini o il lavoro del tempo ha trasformato in elemento simbolico di una comunità". Nora colloca l’origine dei luoghi della memoria nella deritualizzazione che caratterizza la nostra epoca: sono dei resti, dei frammenti del passato, che diventano i riti di una civiltà ormai priva appunto di ritualità. In questa accezione due agenti decisivi giocano un ruolo essenziale: la volontà degli uomini di definire uno spazio per installarvi, sacralizzandolo, un frammento del proprio passato, il trascorrere del tempo che da una parte minaccia e mette a rischio la sopravvivenza del ricordo di quel passato e dall’altra seleziona quei frammenti di passato la cui salvezza, attraverso la monumentalizzazione e la sacralizzazione risulta essenziale all’identità di una comunità. Un’accezione più ristretta è stata di recente coniata — lo osserva in un suo recente utilissimo saggio Ersilia Alessandrone Perona — sempre in Francia per definire quei luoghi del ricordo che non sono ancora entrati nella grande memoria collettiva della seconda guerra mondiale. Si tratta dei luoghi nati per mantenere il ricordo delle tante memorie divise in cui nel dopoguerra si è frammentata, sia nello spazio che nei contenuti, la memoria della partecipazione dei francesi alla guerra, per effetto della stessa complessità di questa partecipazione. Sono dunque luoghi "del ricordo" che possono anche divenire, in seguito, "della memoria" nel senso definito da P. Nora — e questo potrebbe essere il caso, secondo gli autori della definizione, proprio dei memorial della deportazione —, ma non è detto che questo avvenga necessariamente. Perché ciò avvenga, aggiungerei io, devono ancora operare i due agenti individuati dalla definizione del Robert, il tempo e soprattutto la volontà degli uomini.

La distinzione proposta dagli studiosi d’oltralpe è a mio giudizio applicabile, con qualche correzione, anche al caso italiano, proprio per quanto riguarda i "luoghi della memoria" della discriminazione razziale e della deportazione.

Nel primo dei tre recenti volumi che Mario Isnenghi ha curato e dedicato ai Luoghi della memoria dell’Italia unita, c’è un capitolo, di cui è autrice Paola Di Cori, dedicato alle leggi razziali. Ma è a mio parere significativo il fatto che nell’intera opera non vi sia una voce dedicata a qualcuno tra i siti esistenti che conservano le tracce e la memoria della persecuzione e della deportazione. Così se troviamo capitoli dedicati ai luoghi, talora anche artificiali, di altre memorie (il Vittoriano, Redipuglia, Monte Grappa), risultano invece totalmente assenti luoghi come il Lager di Fossoli o la Risiera di San Sabba o il campo di internamento di Ferramonti, oltre anche a luoghi relativi ad altri eventi che hanno inciso profondamente la nostra coscienza, come ad esempio le stragi naziste (non ci sono né le Fosse Ardeatine, né Montesole). Omissioni queste sicuramente non addebitabili a scarsa considerazione, o sensibilità, degli autori nei confronti di quei luoghi e degli eventi ad essi collegati, ma, riterrei piuttosto, al fatto che essi in fondo non sono considerati a pieno titolo "luoghi della memoria" di tutti gli italiani: come tali non possono trovare spazio proprio in un opera che si propone di registrare una selezione già avvenuta nell’immaginario collettivo degli italiani, piuttosto che indicarne una ideale. Si tratterebbe, cioè, di luoghi che si riferiscono più a memorie segmentate, parziali, che rientrerebbero quindi piuttosto nella categoria "del ricordo" di cui dicevamo prima, che non luoghi in cui la memoria della collettività italiana riconosce un elemento significativo del proprio passato. Se è vero, insomma, che nella scelta dei luoghi della memoria operata da Isnenghi c’è convivenza tra localizzazione materiale e geografia dell’immaginario collettivo, evidentemente la loro assenza è la registrazione "notarile" che questa corrispondenza tra leggi razziali e siti come Ferramonti, Fossoli e la Risiera ancora non c’è.

Ed era l’idea di questa corrispondenza invece ad animare i curatori della importantissima mostra La menzogna della razza, realizzata dal Centro Furio Jesi di Bologna, che nei tre scorsi anni è stata allestita in molte città italiane e nel cui ambito — nella sezione dedicata alla prassi persecutoria — era colta sagacemente l’esigenza di documentare l’esistenza anche in Italia di rilevantissimi luoghi della memoria della discriminazione e della deportazione, cercando di stabilire un raccordo anche sul piano storiografico tra prassi persecutoria del fascismo e politica di sterminio nazista. Non limitando cioè il discorso ai soli campi di concentramento gestiti dai nazisti (4 principali: Fossoli, Bolzano-Gries, Risiera di San Sabba, Borgo San Dalmazzo), ma allargandolo anche al fenomeno (totalmente italiano) ai più tuttora scarsamente noto dell’internamento fascista, il cui luogo-simbolo è per quanto riguarda gli ebrei senza dubbio il campo di Ferramonti di Tarsia.

Un intento analogo, allargato al piano generale dei luoghi della violenza nazista e fascista in Italia sta all’origine del progetto dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia poi sfociato nel volume Un percorso della memoria, che non a caso si apre proprio con un capitolo dedicato al campo di Ferramonti, progetto che prendeva le mosse anche da un’altra constatazione: quella che al di là del vuoto registrabile fino ad oggi nella memoria collettiva nazionale, era in atto, sia pure in forme tra loro diverse per qualità e per stato di avanzamento del progetto, ed ancora scollegate ed episodiche, una ripresa di attenzione per alcuni luoghi, come Marzabotto-Montesole, la Risiera, Ferramonti, Fossoli e Carpi — con il suo Museo monumento al deportato —, che catalizzava l’attenzione, l’attività e la partecipazione non solo di alcune amministrazioni locali, ma anche di storici, studiosi ed operatori della didattica. Questi sintomi di risveglio dell’attenzione andavano pertanto prontamente colti per cercare di stabilire un raccordo, certo al momento ancora solo virtuale, tra le realtà in movimento, in vista della costruzione del Percorso della memoria come primo passo e, in seguito, di una effettiva Federazione dei luoghi della memoria.

Si trattava, indubbiamente di un progetto ambizioso, perché esso mirava oltretutto a qualificare diversamente il concetto di pellegrinaggio della memoria, rispetto alla tradizione ritualistico-simbolica ancora largamente prevalente soprattutto nell’ambito dell’associazionismo della deportazione, individuando una funzione determinante, nell’elaborazione della memoria stessa, delle attività educative e didattiche connesse ai siti proposti — tra loro istituzionalmente differenti (dal museo, al parco della pace, alla scuola di pace, alla fondazione culturale). Luoghi della memoria, quindi, con un carattere in più rispetto all’elemento rituale proposto tradizionalmente, quello di essere anche strumento operativo di conoscenza, di crescita di consapevolezza sia sul piano della cultura storica, che su quello dei valori di civiltà e di cittadinanza. Se infatti la ritualità fine a se stessa, l’autocelebrazione, non può che allontanare l’attenzione delle giovani generazioni e, d’altra parte, l’incontro con la memoria di cui quella stessa ritualità è espressione è per queste ultime comunque indispensabile, esso deve avvenire su un terreno diverso.

E veniamo al nesso — a mio parere molto importante — tra memoria e sito, tra immaginario e conservazione dei luoghi fisici.

Se non c’è dubbio che alcune forme di cristallizzazione di "luoghi della memoria" avvengono del tutto al di fuori di spazi concretamente definiti, è a mio parere altrettanto e ancor più vero che la presenza di un luogo "autentico" e non solo simbolicamente evocativo rende di gran lunga più agevole la conservazione della memoria stessa. Era questo il ragionamento che in fondo, a contrario, facevano i nazisti quando si preoccupavano di cancellare il più possibile ogni traccia dei campi di sterminio. E che gli autori di crimini di guerra e contro l’umanità cercassero di cancellarne le prove mi pare abbastanza comprensibile. Ciò che è meno giustificabile è il fatto che in molti casi, nel dopoguerra, alcuni di questi luoghi sono stati abbandonati e lasciati andare in rovina, se non demoliti, da coloro che avrebbero dovuto aver ogni interesse a conservare, anche attraverso di essi, la memoria di quei crimini.

Certo è sempre possibile conservare la memoria anche a partire da poche macerie o da resti presso che archeologici, si pensi all’intensa attività della Fondazione Topografia del Terrore (Stiftung Topographie des Terrors) di Berlino, sorta a partire dalla necessità di ricostruire dalle macerie la memoria di un luogo fondamentale della storia contemporanea tedesca quale l’area accanto alla Prinz-Albrecht-Stasse dove si trovavano le più temute istituzioni del terrore del Terzo Reich, oppure, nel caso italiano, all’impegno tardivo (ma proprio per questo forse ancor più meritorio) in corso a Bolzano ad opera del Comune di far rivivere la memoria di quel Lager dopo che nei decenni scorsi le autorità locali ne avevano demolito le strutture. Ma non c’è dubbio che si tratta di un compito estremamente difficile e comunque destinato ad un esito quasi esclusivamente documentario.

Nel saggio didattico Educa il luogo che è inserito tra gli apparati di Un percorso della memoria, ed al quale mi permetto di rimandare per un meditato approfondimento di questi temi, Cova e Baiesi contemplano anche l’ipotesi dell’abbandono tra le forme possibili del rapporto con i luoghi della memoria, accanto a quelle della monumentalizzazione e della restituzione, ma contrappongono ad esse la loro proposta di appaesamento, cioé di inserimento "costituzionale" in un continuum con i luoghi della vita sociale e civile, sola premessa perché quei luoghi possano quotidianamente essere vissuti come autentico messaggio di pace. In ogni caso si tratta di una scelta politica, di politica della memoria nell’ultimo caso, di politica dell’oblio nel primo.

Un doloroso esempio recente di questa scelta dell’oblio è quella del totale abbandono da parte del nuovo stato croato del Museo e memoriale di Lipa (villaggio del Fiumano teatro di una delle più atroci stragi nazifasciste del 1944), che costruito dallo stato jugoslavo all’inizio degli anni Settanta su un modello che si rifà per certi aspetti a quello francese di Oradour, oggi versa in condizioni a dir poco miserevoli.

Ma queste cose non succedono solo in paesi caratterizzati da rapidi processi di trasformazione e ridefinizione identitaria, com’è il caso della Croazia. Mi perdonerete il riferimento di cronaca, ma certo non può che amareggiarci profondamente il dover constatare anche in Italia — e proprio mentre queste riflessioni, sulla rilevanza che i luoghi della memoria possono assumere, venivano portate avanti, allargate e poste all’attenzione del pubblico — l’incuria ignorante e la scarsa vigilanza delle istituzioni rendevano possibile un ulteriore grave oltraggio al già precario patrimonio della memoria dell’internamento ebraico in Italia con la demolizione abusiva verificatasi all’inizio di quest’anno di una delle ultime baracche originarie di Ferramonti .

Dicevo, prima di aprire questa breve parentesi, che il destino dei luoghi della memoria dipende comunque da una scelta politica, di politica culturale. Desidero chiarire meglio questo punto. Nel sottolineare l’importanza di una politica della memoria, da contrapporre alla scelta dell’oblio, sia chiaro sono ben lontano dall’auspicare l’imposizione dall’alto, ad opera del potere politico, di una memoria storica unificante, di cui credo una società democraticamente matura non abbia bisogno per definire la propria identità. Intendo rifarmi piuttosto al concetto di ricostruzione di una memoria, così come è stato elaborato da Maurice Halbwachs, che guardava al modo in cui certe tracce del passato possono essere riattivate nel presente, nella società, attraverso la loro strutturazione in un sistema rappresentativo legittimo e coerente per essere correttamente ri-proposte alla rielaborazione da parte delle nuove generazioni. In questo senso, una prassi coerente ed attiva di tutela dei luoghi fisici delle memorie italiane della discriminazione e dello sterminio, mi sembra dovrebbe essere considerata un prerequisito, un dato scontato, ma purtroppo così non è. L’ancoraggio al luogo fisico autentico, in qualsiasi delle sue forme sia oggi a noi pervenuto — della monumentalizzazione, della restituzione o dell’abbandono — è comunque a mio giudizio un fondamentale, direi quasi necessario, complemento alla testimonianza dei superstiti nella trasmissione della memoria della persecuzione e della deportazione. Lo ha capito molto bene Claude Lanzmann, il quale nel suo capolavoro Shoah, il più importante film-documento sullo sterminio degli ebrei d’Europa (documento in sé, non documentario, perché di documenti storici in esso non ne compaiono), ha scelto di collocare la maggior parte delle interviste ai superstiti nei luoghi, spogli ed essenziali, così come essi ci appaiono. Consapevole del fatto che ancora oggi, nonostante l’erosione materiale e temporale, essi — i luoghi — parlano al visitatore che vuole intendere. Di qui la funzione specifica ed il potenziale straordinario di quelle diverse forme di conservazione attiva e trasmissione della memoria, che hanno potuto sorgere proprio sui luoghi fisici, sui siti stessi in cui gli eventi che esse ricordano si sono svolti. Le forme, come già ho accennato, possono esser diverse. Per restare nel campo dei luoghi italiani della deportazione e della discriminazione, ad esempio, a Carpi, comune di cui Fossoli è frazione, opera una Fondazione culturale ed un Museo Monumento al deportato particolarmente attivo sul fronte dell’aggiornamento degli insegnanti e nell’organizzazione di viaggi di studio; a Trieste è stata realizzata, negli anni Settanta, la monumentalizzazione diretta del sito della Risiera, al cui interno tuttavia è stato inserito un Museo storico che è luogo attivo di diffusione culturale tra i visitatori e soprattutto per le scuole, attraverso uno sperimentato servizio didattico gestito dal Comune. A Ferramonti opera, tra le mille difficoltà derivanti dalla ancora irrisolta sistemazione dei resti del sito, una vivace ed ormai autorevole "Fondazione internazionale "Ferramonti di Tarsia" per l’Amicizia tra i Popoli. Il modello è comunque in espansione: l’ultima realizzazione in ordine di tempo è la "Casa della Resistenza" sorta nell’area monumentale di Fondotoce di Verbania.

A Bolzano dove come ho detto il sito è scomparso (solo resti del muro di cinta) il lavoro è certo più difficile.

Non c’è spazio qui per i riferimenti storiografici relativi ai siti citati, per i quali rinvio, a quanti volessero documentarsi, oltre al più volte richiamato Un percorso della memoria, all’ampia sezione dedicata ai luoghi nel sopra citato catalogo della mostra La menzogna della razza e al saggio di Laura Federzoni La geografia dei Lager in Italia. I punti di raccolta.

Ciò che ho rozzamente definito come ancoraggio al luogo, inteso come dimensione e costruzione concreta è reso, sul piano generale della tutela della memoria, ancora più attuale e necessario dall’affermarsi progressivo nella realtà contemporanea di quella che Antonella Tarpino ha recentemente definito, rifacendosi a Marc Augé, la dimensione del "non-luogo", ovvero di quegli spazi privi di identità, ripetitivi, totalmente artificiali (dall’areoporto ai grandi magazzini, dall’autogrill, alla catena alberghiera) o addirittura duplicati puramente virtuali, che non comunicano nulla, non avviano nessun percorso di conoscenza autentica, creano anzi un effetto di spaesamento in cui dimensioni quali la storia e la memoria sembrano perdere di senso. In questo contesto, che è uno degli aspetti più inquietanti del nostro mondo che pare rischiare l’appiattimento alla dimensione dell’eterno presente, il potenziale mnemagogico dei luoghi della memoria, per usare l’espressione di Primo Levi ripresa da Alberto Cavaglion — la loro capacità appunto di suscitare memoria — non può essere trascurata da un’avveduta politica culturale e dalla scuola. I finanziamenti introdotti recentemente dal Ministero della Pubblica Istruzione col progetto "Il ‘900. I giovani e la memoria" per viaggi di istruzione ad uno dei campi di sterminio nazisti, non vissuti episodicamente, ma inseriti a coronamento di un progetto formativo di ampio respiro, costituiscono certo un primo passo importante; riterrei comunque importante anche una maggiore attenzione ai siti italiani. Allo stesso tempo ritengo debbano essere superate rapidamente le divergenze sorte intorno alla definizione della data per approvare la proposta di legge dell’on. Furio Colombo per l’istituzione della giornata del deportato, ma inserendo in essa un esplicito riconoscimento dei luoghi destinati a custodire e perpetuare, anche sul piano della commemorazione, la memoria della deportazione, luoghi che credo vadano individuati se non in tutti i quattro campi citati, di Borgo San Dalmazzo, Bolzano, Fossoli e della Risiera di San Sabba, almeno — a turno — in quelli che sono stati recuperati, o per i quali esiste un progetto di recupero.

Consentitemi, per finire, una piccola, ma significativa, citazione da Paolo Rossi, il quale conclude un suo saggio affermando che se "il fossato della smemoratezza può ridurre la nostra vita di individui ad una serie di momenti che non hanno più senso", questo non vale solo per i singoli, "ma anche per le collettività ed i gruppi umani. Io so bene — continua Rossi — che l’attuale, quasi spasmodico interesse per la memoria, è legato al terrore che abbiamo per l’amnesia, alla nostra incapacità di connettere in un qualche modo passato e presente. Mi auguro che questo interesse sia legato anche al bisogno di riaffermare, attraverso quella connessione, una nostra identità collettiva".

Il difficile compito che abbiamo di fronte è operare affinché i "luoghi della memoria" possano partecipare a tale riaffermazione.

 

Programma Roma