L’esercito serbo


E’ molto difficile trovare documentazione sulle condizioni di vita dei Serbi durante la guerra. Da un lato la censura militare e le esigenze della propaganda bellica di tutte le parti in guerra, dall’altro i vincoli di movimento e di informazione per i giornalisti occidentali non hanno fatto giungere in Italia molte notizie sulla vita della popolazione della Serbia e del Kosovo sotto le bombe. E le immagini (fotografiche e televisive) pubblicate e trasmesse sono state poche, con soggetti analoghi e spesso ripetute.
Inoltre la scelta di campo contro il nazionalismo di Milosevic ha fatto prevalere nell’informazione le condizioni dei profughi kosovari, mentre i Serbi sono stati rappresentati infiammati di nazionalismo e solidali con le sorti del governo, essendosi sopite le posizioni delle opposizioni, molto forti nei due anni precedenti soprattutto a Belgrado.
I giornali italiani hanno ospitato alcune opinioni di esponenti serbi del dissenso e messaggi via internet di cittadini di Belgrado.
L’esercito serbo, la polizia e i reparti paramilitari hanno condotto la pulizia etnica nel Kosovo. Ci sono state le descrizioni dei massacri, ma non abbiamo informazioni sull’equipaggiamento e sulle strategie.

Il giornalista Massimo Nava, che è stato per un lungo periodo nel Kosovo, racconta un suo incontro con un reparto serbo.

Il brano è tratto dal volume Kosovo c’ero anch’io , Rizzoli, 1999, pp.61-62. 

Malisevo era una sorta di piccola capitale del "Kosovo liberato". In estate, i guerriglieri avevano piantato sul municipio la bandiera rossa con l’aquila nera, cambiato targhe e insegne, scavato trincee a difesa del loro sogno impossibile. Poi sono arrivate le squadre speciali della polizia serba. E qui, come in altri villaggi, hanno agito con sperimentata brutalità. Il cannoneggiamento dei carri armati, la fuga dei civili sulle montagne, gli incendi e le razzie. Adesso, sopra le insegne dell’UCK, si leggono le quattro "S" dell’iconografia serba e slogan del genere "Non siamo soltanto perfetti, siamo serbi".

Sono gentili e ospitali, i soldati, come se fosse arrivato un ordine non scritto: parlate con i giornalisti, fate vedere che ci stiamo ritirando. Il comandante della guarnigione, seduto nella villetta che ospitava una postazione di guerriglieri, offre caffè e grappa. Si scusa: "Siamo tutti un po’ euforici, ieri sera abbiamo bevuto un po’ di più, perché finalmente si torna a casa". Lavoro finito. C’è aria di smobilitazione in questa caserma improvvisata, con i materassi per terra, i poster delle donne nude alle pareti e il tanfo di micidiali sigarette.

Il comandante concede una parziale ammissione, rompendo la propaganda ossessiva delle autorità, l’ostinato ritornello dell’ "operazione di polizia contro i covi dei terroristi". Dice: "Certo, ci sono state anche vittime civili. Donne, vecchi, bambini. E’ il prezzo della guerra, dello scontro armato. Ma i civili erano spesso nelle stesse case dei guerriglieri. Sono stati usati come scudi. Non crediate che l’abbiamo fatto apposta. Abbiamo figli anche noi".

Altre domande si perdono nel fumo delle sigarette e del rancio. Come mai, dalle case devastate, sono scomparsi anche i televisori, gli animali, i vestiti? C’erano "terroristi" anche nei negozi? Era necessario quel colpo di cannone sulla moschea? Rispondono i pochi profughi infreddoliti che incontriamo sui sentieri sterrati, salendo sulla collina. "Ci hanno derubato di tutto, come barbari. Ci hanno portato via le bestie, i risparmi, i vestiti", accusano.

"Vedete, è tutto tranquillo, i profughi possono tornare", commenta l’ufficiale, aspettandosi un assenso. E perché non tornano? Perché soltanto alcuni si aggirano come fantasmi, a piedi scalzi? "Sono ostaggi dei guerriglieri, sulle montagne. Adesso hanno paura di tutti, ma noi garantiamo la sicurezza", sostiene il comandante. Soltanto Baba, la "nonna", un’albanese centenaria, confusa e solitaria, non ha paura dei soldati che le portano la "Sorba", una zuppa calda.

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