«...io e miei compagni abbiamo accettato una sfida, abbiamo vissuto un'esperienza drammatica..»

La testimonianza di Tina Anselmi sulla Resistenza
 raccolta da Alessandra Chiappano

Ho incontrato Tina Anselmi (1) nella sua casa di Castelfranco Veneto, il 20 marzo 2003 e le ho chiesto di raccontarmi della sua esperienza partigiana, della liberazione di Castelfranco Veneto e del significato che assume oggi il 25 aprile e la lotta di liberazione. Ecco quello che mi ha raccontato:

Ero a scuola e frequentavo l’Istituto Magistrale, quando un giorno i fascisti ed i tedeschi, per rappresaglia, dopo aver compiuto il grande rastrellamento sul Grappa, per vendicarsi dei partigiani presero i giovani che avevano catturato e li impiccarono agli alberi di Viale Venezia (ora Viale dei Partigiani) a Bassano (2). Poi costrinsero tutti gli studenti delle scuole ad uscire e ad assistere all’impiccagione. Anch’io fui costretta ad assistere a questo spettacolo orrendo. Una volta tornata in classe scoppiò una lite furibonda fra noi compagne di classe, ci siamo picchiate e c’era chi diceva che i soldati avevano fatto bene e chi invece prendeva le parti dei partigiani. Rimasi molto colpita da quell’episodio perché fra i ragazzi uccisi c’era anche il fratello della mia compagna di banco. Tornando a casa parlai con lei e una mia amica che aveva il fidanzato che combatteva sul Monte Grappa con i partigiani mi chiese: "Ma tu avresti il coraggio di fare la partigiana?" E così discutemmo su quello che poteva significare fare la partigiana e fu questa amica che mi accompagnò dal comandante. Egli mi disse "Sai che cosa ti aspetta? Se ti prendono pagherai solo che ti ammazzino perché ti faranno di peggio": mi aveva posto di fronte tutti i rischi per vedere se avrei avuto il coraggio di accettare ugualmente. Il Comandante mi aveva vietato di parlare con chiunque, perché quello era il solo modo di non coinvolgere, in caso di arresto, altri partigiani. "Tu Tina devi sparire, devi sceglierti un nome in codice ed essere solo quella persona"; così mi aveva detto il comandante, ed io scelsi il nome di Gabriella. Il rischio era grande; ci si conosceva per cellule piccole, due o tre persone al massimo.Inizialmente facevo la staffetta per il Comandante di una zona circoscritta, poi era stato paracadutato tra i nostri un Generale che doveva organizzare una zona più ampia e così era venuto aumentando anche il mio raggio di azione.

Io appartenevo ad una Brigata Autonoma, ossia una di quelle Brigate partigiane che erano svincolate da qualsiasi collegamento con i partiti politici e che aveva l’obiettivo di liberare la zona. Il mio compito principale era mantenere i contatti fra le diverse formazioni e informare le bande sugli spostamenti dei tedeschi. Per assolvere questo compito facevo più di cento chilometri al giorno.La mia giornata iniziava alle cinque del mattino: prima andavo a Treviso, poi qui a Nord di Castelfranco, dove c’era il comando, poi a Bassano a scuola, perché avevo diciassette anni e volevo finire l’anno scolastico e infine da lì tornavo a casa. Spesso mi capitava di non mangiare nulla, perché i miei genitori credevano che mangiassi alla mensa dalle suore, invece ero talmente presa dalle mie corse che spesso trascorrevo la giornata digiuna. Mi ricordo che il mio professore di latino aveva intuito la situazione e allora un giorno mi aveva chiamato alla cattedra e mi aveva detto bonariamente di andare in sala professori e frugare nelle tasche della sua giacca, dove trovai del pane e un pezzo di polenta.

Il mio compito principale era mantenere i contatti fra le diverse formazioni e informare le bande sugli spostamenti dei tedeschi. Per assolvere questo compito facevo più di cento chilometri al giorno.La mia giornata iniziava alle cinque del mattino: prima andavo a Treviso, poi qui a Nord di Castelfranco, dove c’era il comando, poi a Bassano a scuola, perché avevo diciassette anni e volevo finire l’anno scolastico e infine da lì tornavo a casa. C’erano anche pericoli reali: ricordo che una volta i tedeschi mi hanno seguita e mi sono salvata buttandomi dentro un fosso. Passato il pericolo uscii fuori dal mio nascondiglio, ma era necessario trovarne subito un altro, perché in quelle condizioni, tutta sporca di fango, fino a che non fosse venuto l’imbrunire non avrei potuto andare in, giro, ma anche questo era assai pericoloso: circolare dopo una certa ora era proibito e rischiavo di farmi impallinare dai tedeschi.

Ma la gente era disposta ad aiutarci, soprattutto erano i contadini a farlo, anche perché l’economia di questa zona era prevalentemente agricola. Ricordo una donna in particolare, Maria, era vedova con sei figli, che ci ospitava sempre quando aspettavamo i lanci degli alleati. Abitava in una zona isolata e dovevamo arrivare da lei prima che iniziasse il coprifuoco. Per tutto il tempo della lotta partigiana, ogni giorno, rischiò la sua vita e quella dei suoi figli per dare ospitalità a noi partigiani e anche ai prigionieri di guerra stranieri che erano riusciti a scappare e non ha mai chiesto niente, neanche una medaglietta! La Maria! Negli anni a venire saremmo andate ogni 25 aprile in bicicletta al suo paese a ricordare quei giorni.

Mediante i lanci, gli alleati ci rifornivano di munizioni, armi, cibo, anche la cioccolata lanciavano, quella nera, quella buona: solo sentendone l’odore i tedeschi avrebbero capito e avremmo passato i nostri guai. Dopo ogni lancio il primo problema era trovare un nascondiglio al paracadute che era di seta, color verde chiaro, confezionato con una stoffa mai vista in Italia, allora lo seppellivamo a casa mia, dove c’era il pollaio.

Nel gruppo a cui appartenevo eravamo molto incoscienti, non avevamo la cultura politica per comprendere fino in fondo quello che accadeva, e all’interno della mia Brigata avevamo deciso di non prendere posizione per nessun partito politico, fin quando non fosse finita la guerra.

Come avvenne la liberazione di Castelfranco e che cosa diresti ai giovani di oggi sul 25 aprile e sulla Resistenza?

Liberammo Castelfranco dopo aver stretto un patto con i tedeschi: noi avremmo dato loro un lasciapassare per arrivare al confine e loro si sarebbero impegnati, in cambio, a lasciare il paese senza compiere rappresaglie. Firmato l’accordo io dovevo avvisare un gruppo di partigiani che si preparassero ad entrare, passai sotto casa mia ed urlai ai miei genitori che eravamo liberi, che avevamo liberato Castelfranco e loro rimasero esterrefatti: solo allora vennero a sapere che ero una staffetta partigiana.

Senonché gli alleati non arrivarono all’ora stabilita, quindi Castelfranco rimase in balia dei gruppi tedeschi e fascisti che tentando di raggiungere il confine passavano per Castelfranco e non essendo a conoscenza del patto stretto con il comando tedesco, uccidevano senza pietà. Fecero questa fine terribile ben centosessantadue ragazzi. Il Comandante ci aveva dato l’ordine di pattugliare le strade e di lasciar passare solo le persone che sapevano la parola d’ordine. Così io assunsi il controllo della zona che mi era stata assegnata, cercando di essere all’altezza della situazione. Quella sera quando era ormai buio, nella piazza grande, vidi l’ombra di un uomo, chiesi la parola d’ordine, non ricevendo risposta puntai la rivoltella contro la schiena di quell’uomo e lo portai al comando, una volta entrati, alla luce, mi accorsi che era mio padre, che era uscito con l’intenzione di venirmi a cercare! Per mesi il paese rise all’idea che mio padre, iscritto al partito socialista, antifascista, fosse stato arrestato nel primo giorno di liberazione dalla propria figlia!

La scoperta più importante fatta in quei mesi di lotta durante la guerra è stata l’importanza della partecipazione: per cambiare il mondo bisognava esserci. Questo è stato il motivo che mi ha fatto abbracciare la carriera politica: la convinzione che esserci è una parte costitutiva della democrazia, senza partecipazione non c’è democrazia e il paese potrebbe andare nuovamente allo sbando. Ecco il motivo per cui non dobbiamo tradire la Resistenza, dobbiamo conoscerla e non tradire i valori su cui si è fondata questa pagina della nostra storia e dobbiamo essere presenti come lo eravamo ieri. E’ con questo spirito che, una volta finita la lotta di liberazione, molti di noi hanno scelto di contribuire con un impegno civile alla rinascita del nostro paese. C’è una lettera nella raccolta delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza di Giacomo Ulivi, nella quale questo partigiano scrive rivolgendosi ai compagni di lotta: "E se ragioniamo, il nostro interresse e quello della cosa pubblica, insomma finiscono per coincidere. Appunto per questo dobbiamo curarla direttamente, personalmente, come il nostro lavoro più delicato e importante. Perché da questo dipendono tutti gli altri, le condizioni di tutti gli altri. Se non ci appassionassimo a questo, se noi non lo trattiamo a fondo, specialmente oggi, quella ripresa che speriamo, a cui tenacemente ci attacchiamo, sarà impossibile" (3). Questo concetto deve essere espresso attraverso la democrazia, o meglio nella democrazia attraverso i suoi strumenti, che sono le istituzioni e l’organizzazione dello Stato. C’è anche un altro aspetto importante: non basta essere nelle istituzioni, è essenziale che si rimanga nella politica se si crede nei valori su cui la democrazia si fonda.

In Italia bisogna riorganizzare la partecipazione attraverso gli strumenti della democrazia: la democrazia per essere vissuta appieno necessita di essere partecipata. Esiste il problema reale come organizzare le istituzioni, lo stato, la vita sociale, la libertà. Perché la democrazia sia vissuta c’è bisogno di avere fiducia negli uomini. Tutte le dittature si caratterizzano per il disprezzo nei confronti dell’uomo, la democrazia deve essere costruita, al contrario, sulla fiducia degli uomini. La democrazia non può che appellarsi a tutti i cittadini perché veramente tutti possano partecipare e in ciò si cela forse il passaggio più impegnativo: se tu vuoi partecipare devi anche garantire la partecipazione degli altri. Quando è terminata la guerra, la prima domanda che ci siamo posti, noi combattenti per la libertà, è stata: "Ora che cosa possiamo fare per non essere privati di una libertà che abbiamo appena conquistato?". La risposta è stata: partecipazione alla ricostruzione del paese, perché avevamo la sensazione che tutti potessimo giocare un ruolo importante. Quando più tardi John F. Kennedy ci ricevette alla Casa Bianca ci disse: "E’veramente democratico quel paese in cui nessun cittadino si sente inutile, perché nessun cittadino è lasciato inutilizzato". Questa è l’anima della democrazia, dalla quale devono nascere le istituzioni, l’organizzazione dello stato, l’organizzazione di un sistema di libertà che dia fiducia al cittadino, in modo che non si senta inutilizzato e pensi di non dover fare nulla perché tanto non sarebbe ascoltato.

Nella nostra incoscienza io e miei compagni abbiamo accettato una sfida, abbiamo vissuto un’esperienza drammatica, in un momento in cui era necessario schierarti e decidere da che parte stare. Siamo stati per certi aspetti fortunati, perché la realtà ci aveva costretti a decidere guardando la verità in faccia, ed io capisco che oggi per i giovani sia assai più difficile prendere una strada che non sia superficiale e di comodo.

NOTE
1. Breve scheda biografica di Tina Anselmi. Nasce a Castelfranco Veneto nel 1927 dove risiede tuttora. A 17 anni entra nella resistenza come staffetta della Brigata autonoma "C. Battisti" e poi fa parte del Comando Regionale del Corpo Volontari della Libertà. Si laurea in lettere all’Università Cattolica di Milano e insegna nella scuola elementare. Dal 1945 al 1948 è dirigente del Sindacato Tessili e dal 1948 al 1955 del Sindacato Maestre. Dal 1958 al 1964 è incaricata nazionale delle giovani della Democrazia Cristiana e in tale veste partecipa ai Congressi mondiali dei giovani di tutto il mondo. Nel congresso di Monaco nel 1967 è eletta membro del Comitato direttivo dell’Unione Femminile Europea. Dal 1963 è eletta Vice Presidente dell’Unione Europea Femminile. E’ eletta per la prima volta come deputato il 19 maggio 1968 e riconfermata fino al 1992, nel Collegio di Venezia e Treviso. E’ sottosegretario al lavoro nel V° governo Rumor e nel IV° e V° governo Moro. Nel 1976 viene nominata Ministro del Lavoro ed è la prima donna che ricopre l’incarico di Ministro. Nel 1978 viene nominata Ministro della Sanità. Nel 1981 viene nominata Presidente della Commissione di inchiesta sulla loggia massonica P2, che termina i lavori nel 1985. Viene nominata Presidente della Commissione nazionale per le pari opportunità. Presiede il Comitato italiano per la FAO. Fa parte della Commissione di inchiesta sull’operato dei soldati italiani in Somalia. Ha presieduto la Commissione nazionale sulle conseguenze delle leggi razziali per la comunità ebraica italiana. La commissione ha terminato i suoi lavori nel mese di aprile del 2001. E’ Vicepresidente Onoraria dell’INSMLI. torna su


2. Nota della curatrice di questa testimonianza: per una curiosa coincidenza del destino questo episodio mi è stato più volte raccontato da parte della nonna materna, sfollata a Bassano: più volte con le lacrime agli occhi mi parlava di quei poveri ragazzi, che non avranno avuto - diceva- più di vent’ anni e che erano stati impiccati agli alberi per vendetta e monito per i civili dai tedeschi. Mia nonna raccontava che il camion dei tedeschi era arrivato verso le sei del mattino, si era nel settembre del 1944, e dopo aver introdotto il cappio nella testa di uno degli sventurati partiva, così che il poverino rimaneva sospeso nel vuoto. Questo spettacolo doveva essere stato terribile perché ricordo che mia nonna si commuoveva sempre quando lo rievocava. Per me, allora bambina, nata e cresciuta in un mondo relativamente pacificato, quel racconto era strano ed incomprensibile, così come quando parlava dell’Africa lontana, da cui era scappata insieme a mia madre e in modo avventuroso nel 1941 e del vento del deserto, il ghibli che copriva ogni cosa e faceva morire gli uccellini nelle gabbiette. Mia nonna è stata una formidabile trasmetittrice di memoria ed è forse anche a lei e ai suoi racconti, che devo oggi, il mio gusto per gli avvenimenti passati , lontani e il desiderio di comprenderli, ora, da adulta, nella loro dimensione storica. Per una ricostruzione storica completa di questa vicenda si veda: Livio Morello, Gigi Toaldo, Il rastrellamento del Grappa: 20-26 settembre 1944, con una introduzione di Enrico Opocher, Padova, Marsilio 1986. torna su


3. Cfr., Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana, (a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli), Torino, Einaudi 1952, ma qui si fa riferimento alla sesta edizione del 1955, pp. 368-372. 
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